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Meglio il Lennon con la testa tra le nuvole del Lennon col pugno chiuso: la ristampa di ‘Mind Games’

Un nuovo box set permette d’immergersi a fondo nel disco del 1973. Non è un capolavoro come dice il figlio Sean, ma è comunque l’album in cui l’ex Beatle si “ricentra” dopo la svolta radicale e le canzoni così così di ‘Some Time in New York City’

Foto: Yoko Ono/Universal

La distanza fra noi cinici infami violenti abitanti del pianeta nel 2024 e il folle saggio utopista John Lennon nel 1973 la puoi misurare ascoltando Mind Games. È uno dei grandi pezzi del suo canzoniere, con e senza Beatles. Dentro ci sono le teorie sull’innalzamento della coscienza (chiedo scusa per il gergo da fattone hippie), i giochi di parole e mentali tipici di John & Yoko, l’appello alla pace ereditato dalla prima versione della canzone che s’intitolava Make Love, Not War. Lennon aveva cambiato il testo mettendo lo slogan “fate l’amore non fate la guerra” in minor evidenza convinto che fosse vecchio già allora, figuriamoci oggi. Del resto, era stato lui a cantare la fine degli anni ’60, dei Beatles e persino di Dio. Alla fine però aveva ceduto nuovamente all’idealismo e s’era messo a cantare di un “druid dude” che scosta il velo della conoscenza e di una non meglio specificata “mind guerrilla”, che fa un po’ spilletta del Che e un po’ pozione magica. Intonava persino un verso imbarazzante come “l’amore è un fiore che devi far crescere”. Ma a Lennon perdoni questo e altro. A Lennon perdoni tutto.

Sean Lennon, che ha ormai ereditato di fatto la gestione dell’archivio del padre essendo la madre 91enne non più in fortissima, dice che l’album che contiene la canzone e che s’intitola anch’esso Mind Games è un capolavoro, che è sottovalutato, che dobbiamo riscoprirlo. Affinché lo si faccia per benino l’ha rieditato in varie versioni anche extralarge. Sono nel loro complesso sia un tributo alla scrittura di Lennon e alla bravura dei musicisti che lo accompagnavano, sia un’esplorazione in profondità dell’opera per fan con un livello d’ossessione degno di Mark David Chapman, sia un oggetto da collezione acquistabile alla modica cifra di 1570 euro (ci sono ovviamente versioni abbordabili anche da chi non ha incassato decenni di royalties di Strawberry Fields Forever).

A differenza di Sean Lennon, non penso che Mind Games sia un capolavoro o che sia sottovalutato. Uscì nell’autunno 1973 facendo tirare un sospiro di sollievo ai fan spaventati dalla svolta dell’ex Beatle, che se ne andava in giro con «alcuni personaggi discutibili» (ancora Sean a Mojo) e aveva pubblicato un disco di canzoni così così, ma assai radicali chiamato Some Time in New York City. È per intenderci l’album che contiene (spero che la polizia morale non venga a prendermi) Woman Is the Nigger of the World. Era tutto pugni alzati, Troubles, femminismo, antirazzismo e solidarietà coi compagni in prigione. Non era esattamente la roba che volevano sentire i molti borghesissimi fan dei Beatles che già attribuivano a Ono la responsabilità d’aver scassato il loro gruppo preferito in quanto donna, cessa e per di più orientale (chiaramente il femminismo serviva). E comunque Some Time in New York City era un disco memorabile più per il coraggio e lo spirito che per le canzoni. «Non era più poesia, era giornalismo», ha detto col senno di poi Lennon che difatti aveva fatto impaginare la copertina come la prima pagina d’un quotidiano.

Arrivato un anno dopo, nel periodo di crisi tra John e Yoko che sarebbe sfociato nel Lost Weekend, Mind Games era più simile a Imagine col suo mix d’idealismo post hippie, vecchio rock’n’roll e canzoni d’amore. Title track a parte, non aveva la genialità dei momenti migliori di Imagine e del debutto. È stato comunque accolto come un ritorno a casa del ragazzaccio che s’era perso a causa di brutte compagnie e di chissà cos’altro. Questo col senno di poi, perché le cronache dicono che in Inghilterra il 33 giri non andò oltre la posizione numero 13 in classifica, battuto dalla settima piazza di Ringo dell’amico Ringo Starr, a cui peraltro Lennon aveva ceduto I’m the Greatest, per non dire dei risultati di Living in the Material World di George Harrison e di Band on the Run di Paul McCartney.

La foto di Lennon scattata in aeroporto da cui è stata tratta la copertina di ‘Mind Games’. Foto: Yoko Ono/Universal

La cosa grandiosa di Mind Games, l’album, è che contiene Mind Games, la canzone il cui titolo è preso dall’omonimo libro di Robert Masters e Jean Houston. Siccome la versione più ricca della ristampa che uscirà venerdì contiene lo stesso album in sei diverse versioni, arrivando alla cifra notevole di 72 tracce senza una sola canzone inedita (ma qualche chicca c’è), nel box set ci sono anche sei Mind Games: il nuovo Ultimate Mix (il disco era già stato nuovamente mixato nel 2002); l’Elemental Mix che offre una sorta di rilettura più scarna dell’album; l’Element Mixes che fa sentire solo alcuni strumenti, massimo tre alla volta, isolandoli e togliendo la voce; l’Evolution Documentary pensato come una sorta di audiodocumentario sull’evoluzione della canzone partendo dallo stadio in cui il ritornello era “make love, not war”; il Raw Studio Mix; la take numero 7. Se vi sembra una follia è perché avete una vita.

Comunque sia, confrontando l’Elemental Mix che ti fa galleggiare nell’aria senza peso e l’Ultimate Mix del 2024 emergono ancora più nettamente in quest’ultimo la gioia, lo spirito sfrenato, l’estasi quasi religiosa che la canzone trasmette, riuscendo a colmare la distanza che ci separa da quel 1973, dal sogno post hippie, dalla guerriglia concettuale di John & Yoko. È gospel cosmico pieno di fiducia (mal riposta?) nell’umanità, con dentro un tocco reggae. Lui diceva che così come l’uomo ha pensato di volare sulla Luna e poi c’è effettivamente andato, la stessa cosa poteva essere fatta con la pace. La pensi, la realizzi. «Un sogno che fai da solo è un sogno, un sogno che fai con gli altri è realtà».

Su un paio di cose Sean Lennon ha ragione: Mind Games è il disco in cui la voce dal padre ha una presenza notevole, esaltata dal nuovo mix, e gli Element Mixes permettono di saggiare la sensibilità dei musicisti, che vanno dal chitarrista David Spinozza al bassista Gordon Edwards, dal tastierista Ken Ascher al batterista Jim Keltner, ma pure Sneaky Pete Kleinow alla pedal steel, Michael Brecker al sassofono, Rick Marotta alle percussioni, le coriste Something Different. Scusate il noiosissimo elenco di nomi, ma è gente figa assai.

Dice Keltner che non ama i dischi remixati o rimasterizzati perché vuol sentire gli originali. Ha ragione da vendere. Il mercato della nostalgia è arrivato a tal punto da rimettere mano più volte ai capolavori del passato, in alcuni casi alterando l’equilibro tra i suoni originali, che sarà anche migliorabile o rivedibile secondo la sensibilità e i mezzi tecnici a nostra disposizione, ma è pur sempre un pezzo di storia del pop e non andrebbe alterato. Per dire: la scelta di cancellare il breve assolo di sassofono di Brecker dal nuovo mix di One Day (At a Time) ci porta a un passo dal falso storico. Che bisogno c’era? Perché togliere i baffi all’autoritratto di Dalí? Ok, è un paragone esagerato, ma ci siamo capiti.

Keltner dice che ascoltando la nuova versione Mind Games gli è sembrato di stare di nuovo in sala di regia a riascoltare le tracce e decidere cosa tenere, cosa cambiare, cosa eliminare. È questo il punto. Riascoltare l’album, immergendomi più in profondità nel disco me l’ha fatto apprezzare di più. Ci sono cascato. I pezzi rock’n’roll mi sembrano ancora troppo scolastici, anche se ora hanno un sound più corposo, ma ho rivalutato la magnifica presenza della voce di John in Aisumasen (I’m Sorry) o la dolcezza arresa di Out of the Blue. M’ha fatto piacere sentire Lennon accennare One Day (At a Time) nel suo registro consueto nell’Evolution Mix e mi sono ritrovato a urlare all’unisono con lui di fronte allo stereo lo “stop the killing!” di Bring On the Lucie, roba che non ho mai fatto prima. Chiedo scusa per il gioco di parole: a forza di ascoltare musica modesta, i dischi modesti dei grandi ci sembrano grandi dischi.

Fino a oggi molti pensavano che la resa sonora non eccellente di Mind Games fosse colpa di Lennon e della sua inesperienza, è infatti il primo album che si è prodotto da sé. L’ascolto di questa riedizione fa pensare che non sia così: le performance sono notevoli, il suono pure. Ma è pur sempre un’operazione da matti, questo super Mind Games, lo dico con affetto. Penso a Beatley Tone, che ha un canale YouTube sui Beatles e ha fatto una videorecensione del cofanetto lunga 75 minuti, quasi il doppio della durata del disco del 1973, oppure a Andrew Dixon, altro creator beatlesiano, la sua dura solo 49 minuti. Se avete una vita, siete ancora più scioccati di prima, vero?

John Lennon e Yoko Ono (e Leon Wildes a sinistra) presentano Nutopia alla stampa alla American Bar Association di New York, 1 aprile 1973. Foto: Bob Gruen/Universal

Le riedizioni degli album stanno diventando sempre più materia per fini conoscitori o se la vedete in un altro modo per sciroccati che si chiedono dov’è finito il sax in One Day (eccomi). Succede perché gli over qualcosa sono quelli più propensi a spendere soldi, e anche tanti, in supporti fisici che non siano solo un vinile da incorniciare per poi continuare ad ascoltare il disco su Spotify. E succede anche perché non restano molte strade percorribili oltre all’approfondimento maniacale dopo che hai, nell’ordine, stampato per la prima volta un vecchio album su CD, lo hai rimasterizzato come dio comanda visto che le prime edizioni digitali non erano impeccabili dal punto di vista sonoro, lo hai rieditato un’altra volta aggiungendo in coda demo e versioni alternative, lo hai rimesso in giro in una edizione deluxe ricca di contenuti e note di copertina, lo hai remixato cambiando l’equilibrio tra gli strumenti. Non ti resta che fare quel che è stato fatto con Mind Games, mettendoci dentro note di copertina ricche, foto d’epoca, vecchie e nuove interviste, illustrando dettagli della registrazione, chiedendo al fan di smontare con te il giocattolo ascoltando varie versioni delle stesse canzoni. L’innocenza di quand’hai ascoltato per la prima volta queste canzoni è perduta e compensata dall’abbondanza di contenuti. Sentire e leggere il cofanettone di Mind Games è come vedere un mago che ti spiega un trucco. Forse non a caso gli eredi di Lennon hanno affidato l’unboxing al magician Chris Ramsey.

Alla storia passerà, anzi è già passato il Mind Games originale, che non era un discone nel 1973 e non lo è nella versione migliorata del 2024. Ma essendo scritto e registrato da uno come John Lennon è pieno di idee che alla fine restano, perché una buona canzone da idealista è sempre meglio di una brutta canzone da attivista piena di slogan “giusti”, perché le sue dediche a Yoko erano vibranti anche se i due si stavano momentaneamente separando, perché se il solito rock’n’roll lo suona una band così va bene lo stesso. E perché certi dischi li ascoltiamo anche per il mondo che evocano, che è poi il motivo per cui Lennon è Lennon e cioè qualcosa di più di un “semplice” musicista.

Per darvi un’idea, il 1° aprile 1973, nel bel mezzo di un’intricata vicenda legale attorno alla permanenza di Lennon negli Stati Uniti, John e Yoko annunciano la nascita di un Paese concettuale, Nutopia. La dichiarazione era stampata nel libretto del disco. «È possibile ottenere la cittadinanza dichiarandosi consapevoli della sua esistenza. Nutopia non ha territorio, né frontiere, né passaporti, solo abitanti. Nutopia non ha altre leggi che non siano quelle cosmiche. Tutti i cittadini di Nutopia sono anche ambasciatori. In qualità di ambasciatori di Nutopia, chiediamo l’immunità diplomatica e il riconoscimento del nostro Paese e del suo popolo da parte delle Nazioni Unite».

La bandiera era un fazzoletto bianco, l’inno nazionale, anzi internazionale di Nutopia è contenuto in Mind Games: sono quattro secondi di silenzio (grazie, Mr. Cage). La preferisco alla maggior parte delle canzoni dei probi impegnati coraggiosi attivisti che ho sentito negli ultimi anni.

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