Jack White, la recensione di 'No Name' | Rolling Stone Italia
Great White Wonder

‘No Name’, il gran ritorno di Jack White al neoprimitivismo

Nell’album senza titolo distribuito gratuitamente dal Willy Wonka del rock ci sono il suono e la mistica dell’ultimo grande eccentrico della musica americana. Uno dei suoi dischi migliori

‘No Name’, il gran ritorno di Jack White al neoprimitivismo

Jack White

Foto press

Entri in un negozio per comprare un disco, una rivista o una t-shirt e alla cassa ti consegnano una busta contenente un vinile. Chiedi cos’è. «Non te lo so dire, il capo ha detto di regalarlo a tutti». È quel che è successo a chi ha effettuato acquisti nella giornata di venerdì nei negozi della Third Man Records a Detroit, Nashville e Londra. Il gentile omaggio è un vinile composto da 13 canzoni senza titolo (almeno per ora), né crediti. Si presenta come una prova di stampa. L’unica scritta che compare sull’etichetta è “No Name”. Al centro del lato A del vinile è inscritto “Heaven and Hell”, dall’altra parte “Black and Blue”, come gli album dei Black Sabbath e dei Rolling Stones. Numero di catalogo TMR-1000.

Per capire che si trattava di un disco di Jack White la gente ha dovuto metterlo sul piatto. Non è solo un modo originale di pubblicare un album, il primo del musicista dalla doppietta del 2022 Fear of the Dawn / Entering Heaven Alive. Non è solo una mossa di marketing per far parlare dell’uscita in un contesto saturo di novità discografiche che sono eccitanti il venerdì e già dimenticate il lunedì. È un modo per evocare la mistica rock andata perduta in questo tempo in cui ogni cosa dev’essere trasparente e si è perduto il senso di comunità tipico del vecchio underground.

Come hanno scritto i tipi della Third Man Records venerdì sera, ripubblicando foto e reazioni di chi s’è trovato per le mani il vinile, questo oggetto misterioso può dar vita a una «meravigliosa esperienza comunitaria di condivisione dell’eccitazione e dell’energia derivanti dalla musica e dall’arte». È qualcosa di ingenuo e allo stesso tempo seducente perché fa leva su un’idea romantica della musica rock.

No Name, chiamiamolo così, è anche e soprattutto un ritorno al garage rock e cioè alle radici di White che affondano nel blues, nella sua rilettura a volume 10, nel repertorio delle band anni ’60 e ’70 considerate note a piè di pagina della storia del rock e dotate invece di un’energia irrintracciabile nel mainstream. È un disco di grandi riff più che di canzoni composte con cura. Si ha l’impressione di sentire musicisti che attaccano i jack e iniziano a suonare per il gusto di far musica eccitante e divertente, senza il pensiero d’incidere canzoni che ricorderemo fra dieci anni, che difatti qua dentro non ci sono. Se vi piace il genere, è uno dei migliori dischi solisti di Jack White.

Il musicista mette da parte certe costruzioni singolari del passato, quando il suo essere autore dotato di grande intelligenza musicale aveva dato vita a dischi estrosi, appariscenti, eclettici, dalle forme musicali cangianti e irregolari. A questa sorta di cubismo No Name oppone un ritorno al neoprimitivismo dei White Strinpes, reso più potente e vario da dosi di hard rock e fugaci momenti quasi prog. Piacerà a chi considera certe cose di Boarding House Reach e Fear of the Dawn troppo cerebrali. E quindi questo vinile strambo e apparentemente minore potrebbe esattamente quel che molti fan volevano sentire.

È un album di riff formidabili spesso alla Led Zeppelin (vedi il quarto pezzo della prima facciata) o punk-rock (il sesto), è fatto di grande dinamica (alleluja) nonostante i pochi elementi utilizzati. L’energia è sempre alta, non ci sono grandi ritornelli, ma special micidiali, assoli brevissimi, accelerazioni eccitanti, timbri favolosi (ad esempio la seconda canzone del lato B). Ci sono un’energia quasi feroce e il gusto di offrire una performance che sembra fatta in buona parte dal vivo in studio. Qua e là White sembra mosso da un fervore da predicatore, come quando veste i panni dell’arcivescovo Harold Holmes. Sembra esprimere la frustrazione e la ricerca di libertà in un mondo in cui siamo soli e disorientati, dove Dio è morto e non ci sono più verità, solo opinioni.

No Man ha anche rinsaldato la fama dei negozi della Third Man Records come posti «where magic happens». L’operazione ha riprodotto la sensazione che si provava un tempo scovando dischi di cui non si sapeva niente, quando il mondo della musica non era a portata di click. E ha ribadito che l’etichetta e i suoi negozi sono fortini ben difesi dell’analogico contro lo strapotere del digitale. Non è solo una questione di supporti o di audiofilia, ma di devozione nei confronti della musica, che è sempre più svalutata e ridotta a contenuto intercambiabile, da consumare in fretta. Attorno al rock, ci sta dicendo White, dovrebbero esserci una comunità e nella migliore delle ipotesi una mistica, la stessa per fare un esempio che circondava il celebre bootleg con le incisioni anni ’60 di Bob Dylan Great White Wonder, tutto bianco pure quello.

Ci sta che a ricordarcelo sia questo Willy Wonka col rock al posto del cioccolato, un eccentrico americano ricchissimo che s’imbarca in imprese inutili come inviare un giradischi nella stratosfera, ma anche capace di investire nella diffusione di musiche poco note o a rischio d’estinzione, dal blues alla new age sudista. White è l’uomo senza nome del rock contemporaneo, per citare il Clint Eastwood di Sergio Leone che negli Stati Uniti è noto per una bella coincidenza come Man with No Name. È un antieroe di poche parole, un outsider animato da un suo personale senso di giustizia.

No Name suscita per ora più domande che risposte. Chi ci suona? Diventerà un album con un titolo? Cosa c’è dietro? Alla Third Man Records dicono di restare sintonizzati, che qualcosa succederà, magari una pubblicazione ufficiale. Intanto l’etichetta ha invitato i fan a copiare e diffondere liberamente l’album, non prima d’averlo detto a sette amici, un modo di dire negli Stati Uniti, ma anche una citazione della quinta canzone del lato A. La condivisione immediata e utilitaristica di oggi e quella comunitaria di ieri, basata sul passaparola.

Questo disco selvatico e furioso, carico e disperatamente rétro (ma fortunatamente non nostalgico) ci ricorda che la sovrabbondanza di stimoli dell’era digitale è deleteria, che la cultura dei numeri è malsana (c’è un pezzo fortissimo e ironico che sembra scritto dal punto di vista di una rock band), che è preferibile cercare un pezzo d’identità non nei best seller, ma nei piccoli progetti artigianali. Che senza la mistica romantica del rock siamo tutti un po’ più soli. Con un po’ d’immaginazione e forse forzandone le parole, direi che è Jack White canta proprio di questo nell’ultima traccia: “Come ti senti quando hai provato tutto? Come fai a vedere quando hai visto tutto?”. Arcivescovo Holmes, rinsegnaci la vita analogica.

Altre notizie su:  Jack White The White Stripes