Close to the Edge degli Yes rappresenta con The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd e Foxtrot dei Genesis forse il punto più altro del progressive. Non è solo il disco di una band al top della creatività, ma riassume perfettamente l’ethos del prog, i suoi ideali, la sua naturale propensione al capriccio e al teatro. Nei momenti migliori, il prog anni ’70 era teso a sviluppare un linguaggio musicale universale in grado d’attingere in egual misura dalla classica e dal blues, dal folk e dal jazz, dalla psichedelia e dal misticismo orientale.
Come i Beatles prima di loro, gli Yes hanno ridefinito la natura stessa della canzone pop, espandendone i confini e lanciandola verso l’ignoto. La title track del loro quinto album dura 18 minuti e copriva tutto il primo lato del vinile uscito nel 1972 evocando la struttura di una sinfonia, tra dissonanze alla Stravinsky, uno dei compositori preferiti del cantante Jon Anderson, e la fantasmagoria orchestrale di un Ravel. È stata assemblata in modo caotico, mettendo assieme pezzi di canzoni di Anderson e del chitarrista Steve Howe, con l’aggiunta di una jam nella prima parte, che inizia col suono di acqua e cinguettii spazzati via da un rock psichedelico suonato alla velocità della luce. Nella sezione centrale il tastierista Rick Wakeman evoca Bach suonando un organo a canne registrato in una chiesa londinese.
Sul secondo lato c’erano due soli altri pezzi. Uno è l’elegia folk And You and I sulla ricerca di verità e purezza, con la sua atmosfera pastorale, le armonie vocali altissime di Anderson e le chitarre acustiche. L’altro è l’acid funk Siberian Khatru, un uragano sonoro lanciato dal drumming di Bill Bruford e dalle linee di basso possenti di Chris Squire. Nel complesso, i tre pezzi suonano vitali come non ci ci aspetterebbe da musica che risale a 53 anni fa.
È una fase della storia degli Yes che è stata ben documentata in passato e quindi la versione super deluxe da poco pubblicata dalla Rhino è destinata a completisti e audiofili. Steven Wilson aveva già remixato l’album nel 2013, nel nuovo box set c’è un’ulteriore rimasterizzazione e un altro suo mix, anche in Dolby Atmos. Se non altro i mix solo strumentali sono rivelatori, soprattutto quello di And You and I: senza la stratificazione delle armonie vocali, emergono com’è giusto che sia le linee di basso acrobatiche di Squire.
Anche le prove in studio dei vari pezzi sono una delizia. Qua e là ci sono asperità e improvvisazioni vocali che aggiungono un tocco di autenticità alla musica di una band nota per la ricerca ossessiva della perfezione. Le versioni per le radio, quelle pubblicate sui singoli e gli “Steven Wilson edits” sono invece irrilevanti.
Foto: Neal Preston
Nel box set c’è anche la leggendaria performance al londinese Rainbow del dicembre 1972 di cui erano usciti in paio di pezzi nel triplo Yessongs. Il cofanetto Progeny di una decina d’anni fa conteneva ben sette concerti interi di quello stesso tour e quindi, per quanto lo show al Rainbow sia buono, è un di più. Vien fuori in ogni caso la foga giovanile con cui gli Yes mettevano assieme virtuosismo e impatto. Heart of Sunrise, che chiudeva Fragile, è puro fuoco e suona come un presagio di Close to the Edge, mentre il siparietto di Wakeman, che suona estratti dal suo esordio solista The Six Wives of Henry VIII, fa venire il sorriso sulle labbra per le sue fioriture bombastiche.
Poco prima dell’inizio del tour di Close to the Edge Bruford ha lasciato gli Yes per andare a suonare coi King Crimson e quindi al Rainbow alla batteria siede Alan White, che affronta ore di cambi di tempo con un certo aplomb. È rimasto col gruppo fino a quand’è morto nel 2022.
Gli Yes non sono più riusciti a toccare le vette di Close to the Edge, ma anche i tre album che sono venuti dopo sono tutti da ascoltare, a partire dall’epico, grandioso e sottovalutato Tales from Topographic Oceans del 1973. Dopo che Wakeman se n’è andato inorridito («Per fare musica devi capirla»), la band ha reagito pompando adrenalina nel quasi metal di Relayer del 1974. Going For the One del 1977 era una celebrazione della bellezza di forma e proporzioni, con un vago sentore di addio definitivo.
Con l’eccezione di Drama del 1980, vertiginoso esperimento tra new wave e prog, gli altri dischi della band sembrano relitti di un naufragio, il vano tentativo di recuperare un po’ della vecchia gloria. Ecco perché questo box set suona come la dichiarazione d’amore per l’epoca in cui gli Yes hanno fatto scoccare una scintilla di puro genio, incendiando tutto.