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‘Shadow Kingdom’, le canzoni di Bob Dylan corrose dal tempo

Non è un disco dal vivo, non è una raccolta di inediti, non sono riproposizioni di classici a beneficio dei nostalgici, non sono riletture esuberanti. È Dylan che fa spettacolo del tempo che passa, a modo suo

Foto: dalla copertina di ‘Shadow Kingdom’

Per una buona metà della sua carriera, Bob Dylan s’è concentrato soprattutto sui concerti. È dalla fine degli anni ’80 che ne fa un centinaio all’anno, escluso ovviamente il periodo della pandemia. È lì, sul palco, che ha riplasmato il suo catalogo, ha stravolto i classici, li ha cambiati radicalmente dando loro forme nuove. In realtà è una cosa che ha sempre fatto, a partire da metà anni ’60 quando ha attaccato la spina, fino alla famigerata performance di Masters of War ai Grammy del ’91.

A partire da Time Out of Mind, questo impulso all’evoluzione costante ha modificato anche il modo in cui scrive canzoni e fa dischi. Per certi fan sfegatati, quelli che vogliono ascoltare tutte le possibili versioni di uno stesso pezzo, sentire Dylan rimettere mano al proprio repertorio è diventata la ragione principale per andare a vederlo dal vivo. Grazie alla spontaneità di queste improvvisazioni, è diventato l’antitesi dell’artista che suona i vecchi successi a beneficio dei nostalgici.

Shadow Kingdom è un’operazione riuscita proprio perché fotografa le due anime che contraddistinguono l’ultimo tratto di carriera di Dylan. Contiene reinvenzioni brillanti di alcune delle sue canzoni più emblematiche, ma ha anche il sapore di una registrazione in studio.

Shadow Kingdom è nato come evento in streaming, 54 minuti rimasti online per pochi giorni nel luglio 2021 (è ora disponibile su Apple TV, ndr). E no, non era il concerto che molti s’aspettavano. Si trattava, piuttosto, di un video in cui Dylan e alcuni musicisti-attori (coperti da mascherine contro il Covid) mimavano nuove registrazioni in studio di canzoni amatissime risuonate in realtà da una band all-star comprendente, tra gli altri, Don Was al contrabbasso, T Bone Burnett alla chitarra, Greg Leisz a pedal steel e mandolino. Le riprese in bianco e nero della regista Alma Har’el immortalano Dylan e la sua “band” sul palco in modo suggestivo: tutti i musicisti si vedono nella quasi totalità delle inquadrature, insieme a una buona porzione di pubblico, tutta gente che sembra uscita dal bar di Casablanca.

Ora le registrazioni in studio dei pezzi usati per Shadow Kingdom sono state raccolte in un album, a riprova del fatto che, per quanto il film avesse un suo senso, si trattava in realtà di un progetto concepito per essere ascoltato. Le canzoni si fondono l’una con l’altra, si dissolvono in note che vanno rapidamente a ricombinarsi in un pezzo nuovo, manco fosse un dj set o la versione incredibilmente compatta di un concerto dei Grateful Dead. Il repertorio viene soprattutto dagli anni ’60, con tre eccezioni: Forever Young del ’74, What Was It You Wanted? dell’89 e un nuovo strumentale in chiusura intitolato Sierra’s Theme. Gli arrangiamenti sobri e belli solidi sembrano venire da un’epoca indefinita tra le due guerre mondiali, se non addirittura a prima dell’inizio del ventesimo secolo.

Anche gli strumenti elettrici paiono a malapena amplificati. Le chitarre di Most Likely You’ll Go Your Way (And I’ll Go Mine) suonano a tratti come se non avessero cassa di risonanza ed è un continuo duellare con la fisarmonica (che fa molto Francia) di Jeff Taylor che diffonde leggera i suoi accordi. La voce di Dylan è sia furtiva che potente, e non risulta forzata. È corposa, le asperità sono smussate con astuzia, il fraseggio trova costantemente nuove angolazioni a testi che parevano cristallizzati nel tempo. Ora I’ll Be Your Baby Tonight suona come la supplica di un ubriaco e non più come l’invito ammiccante di un uomo alla sua amante. Non è un colpo di scena inatteso, ma la performance scarna e desolata di Taylor dona profondità al pathos espresso da Dylan.

Il cambiamento più radicale è riservato a Tombstone Blues. Nel 1965 la canzone filava a un ritmo forsennato, con la voce di Dylan che sfidava l’ascoltatore a tenere il passo (la lapide di cui cantava era ancora parecchio lontana, anche se la si poteva intravedere). Ora la canzone è rallentata, non sembra più correre, ma strisciare. Se un tempo la litania di nomi sciorinati nel testo (Brother Bill, Ma Rainey, Cecil B. DeMille) brillava come un cartello stradale illuminato, ora sembra comporre un manifesto funebre.

Il bello è che questa sensazione cupa di mortalità non butta giù minimamente la musica e anzi questa rilettura scarna risulta eccezionale: è una Tombstone Blues molto meno irrequieta dell’originale, eppure talmente vivace da risultare irresistibile. Fa storia a sé, proprio come Shadow Kingdom.

Da Rolling Stone US.

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