Forse siamo mezzi morti. Il cuore che batteva nei primi secondi di The Dark Side of the Moon dev’essersi fermato e al suo posto c’è la pulsazione d’una macchina che ci tiene in vita artificialmente. È sparita anche la voce del roadie che diceva “I’ve been mad for fucking years”. C’è invece Roger Waters che recita una buona porzione del testo d’una vecchia canzone dei Pink Floyd, Free Four, compresa la massima “i ricordi di un uomo anziano sono le azioni di un uomo nel fiore degli anni”. Si capisce subito che cos’era e che cos’è oggi The Dark Side of the Moon. Nel 1973 era un monito accorato e poetico, un invito a evadere da un’esistenza mesta e preordinata. Nel 2023 è una riflessione sulla vita e la morte, sul bene e sul male di un artista che ha appena compiuto 80 anni.
The Dark Side of the Moon Redux, rilettura del best seller dei Pink Floyd che Roger Waters pubblicherà il 6 ottobre, piacerà solo a chi è disposto a farsi un giro nella testa d’un musicista che ama rileggere il passato alla luce delle sue attuali convinzioni e della sua veneranda età. È stato detto che questo sarebbe un disco de-gilmourizzato, vale a dire privo delle parti di chitarra solista suonate all’epoca da David Gilmour, qualcuno ha immaginato per chissà quale dispetto o ripicca. Il punto è un altro. Il concetto che sta alla base, ovvero il cambiamento dei colori sonori per rimettere al centro le idee, non dà vita a un album memorabile, semmai a singoli passaggi buoni, a volte notevoli. È riuscita ad esempio l’idea di usare il theremin, sono brillanti le coloriture e i saliscendi degli archi, sono apprezzabili certi passaggi tenebrosi, i brevi strumentali minacciosi, l’uso dell’organo, il tutto suonato dalla band che accompagna Waters in tour affiancata da una serie di ospiti. E però, un senso di cupezza e solitudine pervade l’album e non solo per la mancanza del timbro vocale più leggero di Gilmour. Le parti più movimentate, quelle più ariose e quelle più emozionanti presenti nell’originale sono depotenziate.
Gli spoken word sono l’artificio usato per sostituire le voci e i rumori che costituivano la cornice narrativa dell’opera del ’73. Waters non vuole e non può contenersi e riempie gli interstizi di Dark Side con nuove storie che dovrebbero, questo l’ha detto lui, far risaltare il tema centrale dell’opera. E così, a cavallo fra Speak to Me e Breathe recupera Free Four, in un interessante cortocircuito fra passato e presente, fra il Roger Waters trentenne e quello ottantenne. Altri frammenti sono piuttosto lunghi e risultano ingombranti se non li si segue con attenzione, risultando ridondanti dopo qualche ascolto. A On the Run e in parte a Time è sovrapposto il racconto d’un sogno in cui, in 400 comode parole, viene narrato lo scontro finale tra bene e male risolto dalla “voce della ragione”, a Money una storia faustiana, col Demonio che se la ride perché sa che il mantello dell’eroe non è che un sudario. La musica di Great Gig in the Sky, dove si rinuncia al canto non replicabile di Clare Torry, è parzialmente coperta da Waters che legge un carteggio con l’assistente dello scrittore e amico Donald Hall a cui non restava molto da vivere, una nota biografica che può risultare stonata in un disco che funziona anche grazie ai temi universali.
E poi c’è la voce bassa e senile dell’artista. Ascoltandola, qualcuno ha citato Leonard Cohen. Non c’è nulla del recitar-cantando del canadese, niente del suo meraviglioso cantilenare assieme sacro e carnale. Ci sono invece dei recitativi come quelli della versione dell’Histoire du Soldat di Stravinsky che l’ex Pink Floyd ha pubblicato cinque anni fa. Anche in quel caso, aveva ecceduto in verbosità, arricchendo a suo piacimento il libretto di Charles-Ferdinand Ramuz e alterando il perfetto equilibro fra musica e parole. È proprio vero che per esprimere lo stesso concetto Gilmour userebbe venti note e due parole e Waters venti parole e due note.
Any Colour You Like contiene un frammento parlato autoreferenziale che finisce con la battuta “Why don’t we re-record Dark Side of the Moon… He’s gone mad”. No, non è impazzito. Da quando un quarto di secolo fa ha deciso di riprendersi l’eredità dei Pink Floyd, Roger Waters ha pubblicato un solo album di inediti, diventando un maestro nel rileggere il passato piegando i vecchi dischi ai concetti che gli stanno più a cuore. Una cosa, però, è farlo in concerto enfatizzando i significati delle canzoni tramite video ed effetti speciali, un’altra cosa è inserire spoken work non memorabili in un disco che memorabile lo è, eccome. A differenza del lavoro svolto su The Wall, rimesso in scena enfatizzando il lato politico, Waters non trasforma Dark Side in una dichiarazione politica – o meglio, lo è implicitamente, ma lo era anche 50 anni fa. Oggi Waters è più pensoso, verboso e anziano d’allora e non può impedire che il disco diventi un racconto dello scontro tra un noi e un loro, una cautionary tale sui pericoli del capitalismo, una riflessione sulla vita e la morte. Anzi, più sulla morte che sulla vita.
“La vita è un momento breve e caldo, la morte è un riposo lungo e freddo”, recita Free Four. Andate a risentire il tono leggero e quasi scanzonato col quale Roger Waters cantava queste parole nel 1972, ascoltate poi il modo meditabondo col quale le recita oggi. Lui afferma che questo Dark Side è più ottimista di quello d’epoca. Sarà, a me sembra sia l’esatto contrario. È vero che entrambi dicono bene o male la stessa cosa, invitano a vivere senza farsi fregare dal (chiedo scusa per la parola) sistema per non ritrovarsi invecchiati, rassegnati, alienati e pieni di balle nella testa. La differenza è che 50 anni fa col suo calore la musica permetteva di fuggire dall’intorpidimento della ragione, dalla dittatura del denaro e del potere, dalla “quiet desperation” citata in Time. Oggi ti fa sprofondare in un incubo. Si usciva da The Dark Side of the Moon un po’ più vivi, si esce dalla Redux mezzi morti.