Un suicidio, Bowie è nei guai: la recensione originale di ‘Diamond Dogs’ | Rolling Stone Italia
1974-2024

Un suicidio, Bowie è nei guai: la recensione originale di ‘Diamond Dogs’

Cinquant’anni fa Rolling Stone scriveva dell’«ultimo sussulto di Bowie, il suo disco peggiore degli ultimi sei anni». Perversione, degrado, paura: ecco come suonava l’album di ‘Rebel Rebel’ alle orecchie degli americani nel 1974

Un suicidio, Bowie è nei guai: la recensione originale di ‘Diamond Dogs’

David Bowie nel 1974

Foto: Gijsbert Hanekroot/Redferns

È chiaro che David Bowie non è più l’homo superior che un tempo sosteneva e che molti credevano fosse. Era una convinzione basavata su Hunky Dory e Ziggy Stardust, due dischi di sorprendente genialità che saranno annoverati tra i grandi album degli anni ’70. Dopo, però, Bowie ha deluso anche i suoi devoti più accaniti. Aladdin Sane era un album discontinuo, Pinups era banale e ora arriva Diamond Dogs, forse il peggior album di Bowie degli ultimi sei anni.

Sarebbe presuntuoso pretendere di spiegare il decadimento di Bowie – è un uomo chiuso nel privato i cui pensieri rimangono un mistero – ma due considerazioni meritano di essere fatte. I primi dischi di Bowie non hanno venduto particolarmente bene negli Stati Uniti, nonostante il successo ottenuto in Inghilterra, il che deve certamente irritare un egocentrico quale è lui. Questo potrebbe averlo spinto a sperare che se l’America non lo amava nei momenti migliori, forse lo avrebbe amato in quelli peggiori. Da Aladdin Sane in poi, Bowie ha avuto la tendenza ad assecondare il pubblico imitando chi ha più successo di lui come Alice Cooper e Mick Jagger. Col risultato di sminuire se stesso e la sua musica.

In secondo luogo, Bowie è diventato sempre più ossessionato dalla figura della superstar e dai suoi orpelli, motivo per cui ha abbandonato il suo nome e ora si fa chiamare, a emulazione di Garbo e Brando, semplicemente Bowie. Hunky Dory e Ziggy erano stati concepiti con cura, in solitudine; da allora le energie di Bowie sono state indirizzate verso la celebrità a scapito della musica, che ora sembra considerare quasi con disprezzo. Perché altrimenti avrebbe scelto di suonare la chitarra solista in Diamond Dogs? Il chitarrista Mick Ronson è sempre stato una delle cose migliori della sua musica, averlo sostituito suona un po’ come se Mick Jagger decidesse di lasciare a casa Keith Richards.

Hunky Dory e Ziggy Stardust erano grandi anche per le sfide che presentavano. Bowie ha sfidato gli ascoltatori a confrontarsi con una sensibilità nuova e aliena; li ha sfidati a riesaminare le loro ipotesi sulla sessualità; li ha sfidati a mettere in discussione il loro rapporto col rock’n’roll, una merce diventata oramai non troppo diversa dalla maionese o dai rivestimenti in alluminio. Con lui, questa era la promessa, la musica avrebbe potuto tornare a essere importante come lo era stata prima che Dylan, i Beatles e tanti altri si perdessero in quella che era allo stesso tempo una crisi di mezza età e una seconda infanzia. In breve, Bowie ha sfidato a cambiare noi e la nostra musica, entrambi impantanati in un compiacimento mortale: “Look out you rock’n’rollers / Ch-ch-ch-ch-Changes / Turn and face the strange / Ch-ch-Changes / Pretty soon you’re gonna get a little older”.

Bowie non è mai stato molto chiaro sulla natura di questi cambiamenti, ma almeno ne vedeva la necessità e la riprova sembrava essere nella vivacità, nell’energia e nell’originalità di Hunky Dory e Ziggy. A rendere la sfida così invitante erano le prodigiose doti di Bowie come autore, arrangiatore e produttore. Le sue canzoni migliori erano costruzioni abili e vivaci, capaci di sfruttare tutti i trucchi del mestiere degli anni ’60, condite con la forza della sua personalità e della sua immaginazione, così da spingerle negli anni ’70. Mentre Don McLean cantava che la musica è morta – e quasi tutte le figure più importanti degli anni ’70 sembravano intenzionate a dimostrare che McLean aveva ragione – Bowie dimostrava che è una menzogna.

Ma purtroppo anche quella di Bowie è una menzogna. Ha condotto i suoi seguaci nel deserto e li ha lasciati lì. Non appena ha proclamato una nuova era, ha voltato le spalle e si è ritirato nella nostalgia. Aladdin Sane rimpiangeva i bei tempi andati, “quando la gente fissava Jagger negli occhi”, mentre Pinups travisava il pop della metà degli anni ’70. Rebel Rebel, il singolo più recente di Bowie, una hit in Inghilterra ma non qui in America, è un tentativo di replicare un successo del 1964. Alla faccia dei cambiamenti.

In Diamond Dogs Bowie grida: “Questo non è rock’n’roll, questo è genocidio”. Anzi, è un suicidio, perché è Bowie e non l’ascoltatore ad essere nei guai. Partiamo dalla chitarra: forse Bowie la suona da sé per ottenere un’atmosfera grezza e non studiata a differenza del più raffinato Ronson, ma il risultato è semplicemente smielato. La prima versione di 1984 in Midnight Special era potente, anche grazie all’apporto di Ronson. La versione di Diamond Dogs senza Ronson è stucchevole e nemmeno l’integrazione degli archi aiuta a tenerla in piedi. E poi c’è la voce: un tempo la voce alta e secca di Bowie, fragile e spigolosa, era notevole per i fraseggi e lo spirito. Ma qui ha deciso di optare per un registro basso, anonimo, e quando se ne allontana suona camp e forzato, mai convincente.

Infine, laddove le canzoni di Bowie erano caratterizzate da una ricca complessità e, contemporaneamente, da una scintillante chiarezza, Diamond Dogs è allo stesso tempo semplicistico e incasinato. Una volta ascoltate, le canzoni di Hunky Dory e Ziggy erano quasi impossibili da dimenticare: le melodie erano affascinanti e ben definite. Questi brani invece sono confusi e senza una melodia forte, e la loro sciatteria non è certo spontaneità.

Diamond Dogs racconta un futuro non troppo lontano in cui i resti della razza umana vivono i loro ultimi giorni alla ricerca frenetica di squallido sesso. Ciò che sembra però interessare a Bowie non è il futuro, ma il sesso. La maggior parte delle canzoni è un oscuro groviglio di perversione, degrado, paura e autocommiserazione, i cui incubi a volte ricordano The Man Who Sold the World, l’album più spaventoso di Bowie. È difficile capire cosa farne di tutto ciò. Si tratta di fantasie masturbatorie, di proiezioni dovute al senso di colpa, di premonizioni terrorizzate, o si tratta semplicemente di sfruttamento dell’estetica di Alice Cooper. Sfortunatamente la musica è così poco affascinante che è difficile interessarsi al tema. E Diamond Dogs sembra più l’ultimo sussulto di David Bowie che del mondo.

Da Rolling Stone US.

Altre notizie su:  David Bowie