C’è stato un momento abbastanza preciso in cui gli FSK Satellite, trio post trap originario della provincia di Potenza, sono saliti agli onori della cronaca a livello nazionale. Ovvero l’8 luglio 2019, quando Salmo aveva pubblicato una serie di storie sul suo profilo Instagram in cui, pur senza fare nomi, criticava con giusta e legittima durezza i nuovi rapper che promuovevano l’uso di eroina nei loro video. «Io non voglio dire a nessuno cosa fare, ma almeno fatevi gli affari vostri e non fate vedere certe cose ai ragazzini. Perché magari siete capaci di settare dei trend», diceva.
Il riferimento era chiaramente al video teaser con cui il gruppo annunciava l’uscita del primo album, FSK TRAPSHIT, e in cui sembravano immortalare qualcuno che cucinava eroina prima di iniettarsela, o che tritava pasticche di ossicodone per poi pipparsele. Va detto che, nei vari botta e risposta sui social – unica circostanza in cui è possibile conoscere la loro opinione, visto che non rilasciano interviste – gli FSK hanno sempre negato di inneggiare all’uso di oppiacei, e che le sostanze a cui facevano riferimento erano molto più leggere e “ricreative”. Va detto anche che l’incidente diplomatico è ben presto rientrato e, indipendentemente da tutto, nel giro di un anno gli FSK sono diventati uno dei collettivi più chiacchierati della scena, nel bene e nel male, e con tutto ciò l’eroina ormai c’entra ben poco. A essere oggetto di accese discussioni è soprattutto la loro musica, adorata da alcuni e detestata da altri. E il fatto che si parli di questo e non di argomenti di competenza del SERT, comunque la si pensi sull’argomento, è una bella notizia.
Si può dire che Taxi B, Sapo Bully e Chiello (questi i loro nomi) abbiano idealmente raccolto il testimone e i fan di altre realtà ex maledette e ormai ripulite per essere esportate sul mercato del pop, come la Dark Polo Gang. Il loro primo album ufficiale, il già citato FSK TRAPSHIT, ha generato risultati molto interessanti in termini di numeri, arrivando al disco d’oro. Taxi B in particolare ha collezionato anche diversi featuring importanti, come quello con Marracash per il remix di Sport o quello con Ghali per MILF. Nonostante questo, però, di loro si sa ancora ben poco, se non appunto che vengono dalla Basilicata, che hanno un’età indefinita che va dai 20 ai 30 anni e che si sono fatti conoscere a colpi di controversie e di video dall’immaginario surreale e lisergico. Da ascoltare sono estremamente ostici perfino per chi è avvezzo a certe sonorità: hanno fatto della dissonanza, dell’andare fuori tempo e del rumore di fondo una bandiera, e immergendosi nel loro secondo lavoro Padre, figlio e spirito, che esce proprio oggi, è difficile scrollarsi di dosso un senso di fastidio costante. L’effetto è certamente voluto, e ha dei padri nobili abbastanza facili da identificare: dai Ratking a Slow Thai, il rap di oltreoceano e oltremanica ha preso già da tempo una deriva quasi cacofonica e punk, dove ogni elemento della canzone sembra entrare in rotta di collisione con tutti gli altri. Brani come la title track, Top Gun o Mastercard sono esempi perfetti di questa tendenza, ma la produzione dell’album è molto varia (nonostante sia firmata da un unico nome, quello del torinese Greg Willen, da tenere senz’altro d’occhio per il futuro): ci sono i guizzi melodici di Lean nel lean e Soldi sulla carta, l’elettronica di Due e zero, il pop distorto e malato di Easy Boys e molto altro ancora.
Sui contenuti, invece, è più difficile esprimersi, per tre ragioni – e qui un bell’OK BOOMER ci sta, ne siamo consapevoli, ma ci tocca comunque fare quella parte lì. La prima: a tratti è proprio difficile capire quello che dicono. Il filone noto all’estero come mumble rap, ovvero la tendenza a non scandire le parole o a mischiare diverse lingue e slang incomprensibili, qui è portato all’estremo, quindi ciascuno può interpretare i testi un po’ come vuole e sperare di azzeccarci. La seconda: ascoltare i rapper che vanno fuori tempo e non chiudono le barre è come ascoltare i cantanti che stonano e urlano, ad alcuni sanguinano le orecchie e altri ci hanno costruito sopra interi generi musicali. Per chi appartiene alla prima categoria, ovvero quasi tutti quelli che sono cresciuti con il rap classico, è difficile scindere la forma dalla sostanza, quindi meglio evitare di lanciarsi in pareri: sarebbe come chiedere a un critico di musica barocca di recensire un concerto screamo. La terza: l’amore per la provocazione che pervade l’intera estetica del gruppo a volte è fuorviante, e col fatto che delle loro vite si sa ben poco è difficile capire se stanno cercando di lanciare un messaggio o se vogliono semplicemente attirare l’attenzione. Il primo video teaser alla Trainspotting era un esercizio di stile, o quello è davvero il loro mondo? Quando parlano di droga e pistole e puttane è perché vivono davvero la strada e il degrado, o si stanno semplicemente sparando le pose? Il fatto che sulla copertina del disco si facciano ritrarre crocifissi come Gesù e i due ladroni ha un significato spirituale, oppure è semplice blasfemia? Ai posteri l’ardua sentenza.
In attesa di scoprire qualcosa di più sugli FSK Satellite (se mai ci riusciremo), resta una certezza: forse il pezzo più interessante del disco, al di là del puro aspetto tecnico o sonoro, è Tre terroni a Milano, quello che rivela qualcosa di più sulle persone che si nascondono dietro la maschera. “Tre terroni a Milano che cosa ci fanno? / Perché indietro non posso tornare ma poco m’importa / Il mio sguardo arriva troppo lontano / Però non so dove”. Speriamo che nel prossimo album abbiano più chiaro l’orizzonte dove farlo spaziare, quello sguardo, e che abbiano voglia di condividerlo anche con noi.