Rolling Stone Italia

Rufus Wainwright: la mia vita in 15 canzoni

Gli esordi, il coming out a Parigi, la malattia della madre, i litigi col padre, l’amore per l’opera, la droga: in occasione dell’uscita di ‘Unfollow the Rules’, il cantautore racconta le storie dei suoi brani più importanti

Foto: Karjean Levine/Getty Images

Due anni fa, quando Rufus Wainwright ha festeggiato il 20esimo anniversario del suo primo album con una serie di concerti/tour de force, il solo fatto di suonare nuovamente le canzoni che hanno dato inizio alla sua carriera ha aperto una nuova fase creativa. «A questo punto della mia vita, è bene fare un bilancio prima di continuare», dice. «Capire che cosa ha funzionato e cosa no, per sapere come andare avanti».

Questa autoanalisi ha dato forma al nuovo album Unfollow the Rules. Registrato a Los Angeles con il produttore Mitchell Froom, è il suo primo disco dichiaratamente pop dopo Out of the Game (2012) e ci ricorda quanto Wainwright si sappia divertire con un grande ritornello e il suono di un vero studio. L’ha registrato lo scorso anno ed è uscito il 10 luglio dopo un ritardo di tre mesi dovuto al coronavirus. Wainwright ha sfruttato la pausa al meglio suonando una serie di concerti intimi a Los Angeles per i suoi follower di Instagram.

Prima dell’emergenza sanitaria, il cantautore è passato dalla redazione americana di Rolling Stone per riflettere sulla sua carriera attraverso le sue canzoni più rappresentative. «Siamo qui per esaminare la mia arte», dice, «e capire cosa si nasconde dietro le quinte».

Prese insieme, queste canzoni raccontano una storia con drammi e meraviglie degni di una delle opere che Rufus ama tanto. Raccontano conflitti con i genitori – Kate McGarrigle e Loudon Wainwright III, entrambi cantautori –, gli anni da star a New York, dipendenze, rinascite e lutti profondi, fino all’appagamento che ha trovato con un matrimonio e una famiglia tutta sua. Nel corso degli anni ha scritto canzoni sui momenti migliori e sui più terribili, raccontati senza mezzi termini e senza minimizzare le delusioni personali.

«È una cosa con cui sono cresciuto», dice del suo stile di scrittura autobiografico. «Andavo ai concerti di mia madre e la sentivo cantare di mio padre, o viceversa, oppure di me e mia sorella. Ed erano tutte canzoni piene d’amore. Ogni tanto c’era qualche colpo basso, ok, ma erano omaggi sentiti. Era un plotone d’esecuzione fatto di musica meravigliosa».

“Beauty Mark” (1998)

«Beauty Mark è un pezzo fondamentale. Prima avevo scritto una canzone intitolata Liberty Cabbage, la prima vera canzone di Rufus: una melodia lugubre, insolita e straussiana uscita dalla penna di un 16enne. Parla di quando, dopo la Prima guerra mondiale, hanno cambiato il nome dei crauti in Liberty Cabbage. Un commento su quanto fosse bizzarra l’America. Mia madre, Kate McGarrigle, era una grande cantautrice e l’ha adorata. Dopo i suoi complimenti mi sono seduto al piano e ho scritto altri 10 pezzi, tutti nello stesso stile, e li ho cantati per lei. Mi ha detto che erano terribili, uno dopo l’altro.

Ero un figlio diligente, quindi li ho buttati via, sono tornato al lavoro e ho scritto Beauty Mark per rispondere alle sue critiche. La canzone parlava di lei, paragonava la sua infanzia alla mia. Io sono cresciuto in un ambiente insolito, con due artisti che si esprimevano a pieno e non facevano finta di fare i genitori. Si beveva molto. Era molto bohemien. Nella mia testa, l’infanzia di mia madre era molto più idilliaca.

Il pezzo parla anche della mia omosessualità, una cosa che non la metteva sempre a suo agio. Mia madre è stata la mia più grande alleata, la prima persona a proteggermi e la mia più grande fan. Mi ha amato più di chiunque altro al mondo. Ma sapevo che la mia sessualità la metteva in difficoltà. Era intrisa di omofobia, come tutta la sua generazione. E ero pronto a combattere».

“Foolish Love” (1998)

«Molte persone mi hanno ascoltato per la prima volta con Foolish Love, che è la prima canzone del mio primo disco. La lenta sezione d’apertura è una sorta di benvenuto al mondo di Rufus. Credo sia stata efficace per attirare l’attenzione del pubblico. Anche prima di registrare l’album, quando stavo per firmare per la DreamWorks di Lenny Waronker, quella canzone è stata importante. Dopo l’accordo ero a Los Angeles e avevo bisogno di un avvocato. Tutte le volte che andavo in uno studio suonavo quel pezzo, e ha sempre funzionato.

È un buon esempio di quanto fossi pronto a vivere sul filo del rasoio: una carriera moderna, da una parte, e il vecchio modo di fare le cose in cui ogni tanto inciampo. Di recente mi sono immerso in una gran varietà di musica americana e uno degli artisti che mi ha colpito di più è Randy Newman, oltre a Harry Nilsson. Quando sono andato a Los Angeles seguivo i loro passi senza rendermene conto. Più guardo indietro più realizzo che sono un erede della loro sensibilità».

“Baby” (1998)

«Tengo molto a Baby. È la prima incarnazione dello stile di musica che mi distingue da tutti gli altri – Randy Newman, David Bowie o Sufjan Stevens –, cioè la mia passione per l’opera. Questo pezzo è come un mondo imprevedibile pieno di dramma, ti dà l’idea di un vero viaggio nella Terra di Wainwright. È anche la cosa più brillante che ho fatto con Van Dyke Parks, che ha scritto l’incredibile arrangiamento d’archi. Registrare quelle parti negli studi della Capitol a Los Angeles, negli anni ’90, è stato davvero hollywoodiano. Ho tanti bei ricordi dell’incisione di quel pezzo.

Baby parla anche di tossicodipendenza: non la mia, a quel punto, ma quella di una persona a cui tenevo molto e che stava lottando con l’eroina. Io non l’ho mai apprezzata granché. L’ho provata, ma sono per droghe più eccitanti. La dipendenza è un tema che viene spesso fuori nel mio repertorio».

“Cigarettes and Chocolate Milk” (2001)

«Adesso parliamo della mia dipendenza. Dopo aver registrato il mio primo disco a Los Angeles e aver vissuto a Hollywood per un po’, sono tornato a New York. Avevo già provato a sfondare a Manhattan e fallito miseramente. La mia estetica era davvero fuori posto rispetto a quello che andava all’epoca, cioè Jeff Buckley e il grunge, una sensibilità eterosessuale, nichilista e basata sul rock, mentre io ero un dandy omosessuale e innamorato dell’opera che suonava il pianoforte.

Poi il mio primo disco ha avuto successo, grazie a Rolling Stone che mi ha supportato molto. Sono tornato a New York da trionfatore e tutti gli scettici e i mostri si sono inchinati. Ho preso un appartamento al Chelsea Hotel, dove ho iniziato a scrivere il mio secondo disco immerso nella cultura newyorkese. Avevo 25, 26, 27 anni.

Anche Cigarettes and Chocolate Milk parla di vivere sul filo del rasoio, ma questa volta il tema è l’alternativa tra divertirsi esageratamente e perdersi nell’abisso. L’ho scritta dopo una serata, ero in hangover e mi sono svegliato tardi. Ricordo ancora tutto: hai sete, hai fame, vedi latte e cioccolato e devi averli a tutti i costi. Ricordo di aver visto una bottiglia di latte al supermercato, ho iniziato a tracannarlo e mi sono subito sentito male. Poi ho fumato una sigaretta e sono stato ancora peggio. Quel momento simboleggia molto per me.

Quella canzone è l’ultimo sussulto di uno stile di vita decadente, quando alcol e droga hanno ancora un aspetto divertente. La canto ancora, quindi deve essermi piaciuto molto».

“Poses” (2001)

«In Poses scopro la verità sul mio stile di vita decadente, realizzo che sono completamente perduto e in qualche modo anche in pericolo. È come se fossi su un lago, in inverno, il ghiaccio si fa sempre più sottile e mentre cammino verso il centro riesco a vedere i pesci sul fondale. Poses parla di quando ho iniziato a rendermi conto di quanto fosse grave la mia situazione.

Non l’ho scritto pensando a me stesso. Il pezzo parla di un amico, una sorta di conoscente. Una persona di cui ero romanticamente ossessionato, un amore impossibile. Era un prostituto, un drogato, ed era meraviglioso. Ho scritto la canzone per lui, ma è affascinante quanto in realtà non lo sia affatto, perché parla di me.

La droga rendeva tutto più difficile. Io mi facevo di metanfetamine. Avevo scoperto un buco profondo in cui potevo rannicchiarmi ogni volta che ne avevo voglia. Dopo aver scritto quel pezzo sono partito in tour, e sono dovuto andare in rehab per rimettermi in sesto. Per fortuna, anche se mi facevo molto e bevevo e facevo baldoria, tutto questo era separato dalla musica. Non posso suonare il piano se sono fatto o ubriaco, quindi dovevo avere dei limiti. Ma quei due mondi continuavano ad avvicinarsi, erano pronti a scontrarsi. E ho deciso di cercare di non rovinare tutto».

“Oh What World” (2003)

«Ho scritto gran parte di Want One in una specie di trance. L’ho registrato da sobrio, ma alcune canzoni venivano dal periodo precedente. Anche se quando l’ho scritta ero messo male, Oh What a World parla della mia vita nel complesso, e di qualcosa con cui combatto ancora adesso: il mio viaggiare continuamente, avere sempre la valigia in mano, scappare da o verso qualcosa. È la stessa irrequietezza che aveva mio padre. Quando ho scritto quel pezzo ero sull’Eurostar che va da Londra a Parigi, e vedevo dei tizi che leggevano magazine di moda. Era come se il treno fosse diventato un video: c’era la campagna francese sullo sfondo e Parigi come destinazione, un finale drammatico e romantico per ogni viaggio in treno. La canzone mi è apparsa all’improvviso. Avevo bisogno di registrarla da sobrio perché ha una sua chiarezza, una cosa di cui sono molto felice».

“Go or Go Ahead” (2003)

«Ho già parlato della mia propensione alle metanfetamine. Go or Go Ahead è un freddo resoconto di quella battaglia. L’ho scritta dopo un brutto crollo che ho vissuto a San Francisco. Alla fine di un episodio drammatico e preoccupante con la droga, sono riuscito a comporre grande musica. Non è una cosa che raccomando a nessuno, e non so se quell’episodio sia stato necessario per scriverla, ma è quello che è successo. Non è stata l’ultima volta che ho avuto problemi simili, ma non ci sono più state altre canzoni come questa, era irripetibile. Parla di arrivare ai limiti delle tue capacità fisiche e mentali con la droga, e sprofondare nell’oscurità. Per fortuna sono riuscito a tornare indietro.

Per qualche ragione, la mia musica è paragonata a quella di Jeff Buckley. L’ho conosciuto appena, e lo ammiro enormemente, ma credo che siamo molto diversi. Per me c’è sempre un lato positivo nelle cose. Non lo faccio di proposito, è la mia natura. Il punto di Go or Go Ahead è che alla fine sopravvivo. Sto combattendo quella battaglia e non voglio sprofondare».

“Dinner at Eight” (2003)

«Io e mio padre abbiamo sempre avuto un rapporto tempestoso. Ci amiamo molto e la nostra reciproca influenza, l’impatto che abbiamo uno sulla vita dell’altro, ci infastidisce entrambi. Nel corso del tempo abbiamo lavorato molto per concentrarci sul nostro rapporto di padre e figlio. È stato un processo lungo. La situazione è precipitata dopo l’uscita del mio primo disco. Ero molto arrogante, dovevo esserlo per sopravvivere in questo business. Dovevo andare là fuori e conquistare tutti, e credo che mio padre si sentisse vulnerabile e minacciato.

C’è stato un episodio, una sera a Shelter Island, New York. Ha a che fare con Rolling Stone. Avevamo fatto un servizio fotografico insieme e un’intervista, e qualcosa non andava. In un certo senso, l’intento di quell’articolo era annichilirlo, e avevo buone ragioni per pensarla così. Lui era combattuto. Da un lato era orgoglioso di me, dall’altro aveva paura. Eravamo due sfere d’energia. Se guardi quelle foto, è evidente che cosa stava accadendo. Avevo anche bevuto qualche drink, e gli ho detto: “Papà, come ti senti a tornare su Rolling Stone grazie a me?”. Non era per niente felice, è chiaro. Dopo quelle foto la nostra relazione è collassata, non abbiamo parlato per parecchio tempo e io ho scritto Dinner at Eight.

Poi, per qualche miracolo, l’ho dimenticata del tutto. Si è cancellata dalla memoria. Anni dopo, quando scrivevo Want One, è tornata. A un certo punto me ne sono ricordato, e ho registrato una demo. Il brano funzionava, lo pensavano tutti, ed è finito sul disco. È ancora oggi uno dei pezzi più potenti che io abbia mai creato. Il primo verso dice: “Ti farò crollare con una piccola pietra”, un riferimento a Davide e Golia, come se volessi uccidere mio padre. Ma alla fine è una canzone d’amore. Era un modo per mettermi in contatto con lui».

“Gay Messiah” (2004)

«All’inizio Gay Messiah era uno scherzo. Era una parodia della musica tradizionale che scriveva mio padre. Parla di sessualità e religione, ed è piena di doppi sensi. La cantavo scherzando, cercavo di far ridere il pubblico con “battezzati nel seme” e altre frasi così. Alcune battute hanno fatto arrabbiare qualcuno, con le mie canzoni succede spesso.

Poco dopo George Bush Jr. è stato eletto presidente. Erano tempi oscuri, e quella canzone è diventata un inno per i diritti gay. È letteralmente diventata una preghiera per un messia gay, una cosa seria, senza ironia. Avevamo davvero bisogno che un salvatore scendesse dal cielo e affrontasse la situazione. Quando Obama ha vinto è tornata a essere uno scherzo, un brano leggero. E ora che c’è Trump, è una vera e propria preghiera».

“Going to a Town” (2007)

«Vivevo a New York quando c’è stato l’11 settembre, e qualche mese dopo sembrava che ci fosse speranza. Sembrava che il mondo volesse guarire, la gente era solidale agli Stati Uniti e forse potevamo tutti imparare qualcosa da quell’esperienza e uscirne fuori più forti e compassionevoli. Poi abbiamo invaso l’Iraq e oggi è probabilmente la peggiore decisione politica mai fatta nella storia degli Stati Uniti. Questo pezzo è la mia risposta.

La città di cui parlo è Berlino. Lì avevo incontrato mio marito e inciso gran parte di Release the Stars in uno studio assurdo che era il fiore all’occhiello della DDR, il governo comunista. È un gigantesco edificio stalinista. Era inquietante e un posto fantastico per creare. Quella canzone parla di andare in una città già distrutta, che ha imparato la lezione sull’orrore che l’umanità può infliggere. Mi sembrava che gli Stati Uniti non si rendessero conto del danno che stavano per causare. Il pubblico ha reagito duramente a questo pezzo. La cantavo e mi insultavano.

Io amo l’America. Sono nato qui e sono cresciuto in Canada, per fortuna, e ne vado molto fiero. Ora vivo qui. Credo ancora negli Stati Uniti. Ho speranza per il futuro. Ma per farlo devo anche essere critico. È una vecchia battaglia che in questo Paese si combatte da troppo tempo».

“Tiergarten” (2007)

«Tiergarten è una canzone su Jörn, mio marito, ed è ambientata nello splendido parco al centro di Berlino. Ormai siamo insieme da 15 anni, nonostante io fossi determinato a non sistemarmi con nessuno per parecchio tempo. Non perché non lo volessi, ma perché mi sembrava impossibile per la vita che stavo facendo, con i viaggi e l’attenzione che dovevo dare a me stesso. Poi, all’improvviso, mi sono ritrovato in una relazione con una persona che era in grado di gestirlo.

Ho incontrato Jörn a un mio concerto, a Berlino. Era un uomo robusto, davvero intelligente, davvero divertente, davvero bello. Ma la cosa che ci ha fatto mettere insieme è la nostra comune passione per l’opera. Parlavamo la stessa lingua. Non siamo andati a letto la prima sera, il che è interessante. Di solito, quando sei una persona sessualmente promiscua come ero io, c’è bisogno di una sfumatura in più prima di andare a letto con qualcuno. Noi siamo riusciti a farlo e abbiamo passato dei momenti fantastici.

Il Tiergarten è diventato una metafora per la foresta della vita. Devi affrontare tutti gli elementi e trovare la tua strada nell’oscurità per arrivare da un lato all’altro del parco. È un’esperienza fantastica ma molto difficile. È un po’ basata sulla fine dei Flauto magico, quando i due amanti devono attraversare insieme il fuoco e l’acqua. Non è mai stato così vero. La nostra storia ha sempre funzionato, e ora siamo papà».

“Montauk” (2012)

«Long Island è il nostro parco giochi estivo. Io e Jörn abbiamo una casa lì. Prima ci passavo tanto tempo con Kate, mia madre. Purtroppo le è stata diagnosticata una forma molto grave di cancro, un sarcoma, e se n’è andata. Ma abbiamo passato tante belle estati insieme a Montauk. Poi ho incontrato mio marito. Abbiamo comprato una casa lì e ci abbiamo fatto una bambina, Viva (con Lorca Cohen, una vecchia amica di Wainwright, ndr). La canzone è diventata il segno dell’ingresso di Viva nel cast di strani personaggi che abitano la mia vita. Certo, anche quelli che circondano sua madre sono interessanti. Ma questa canzone parla dell’attesa di un figlio e della grazia che porta il suo arrivo. Purtroppo non ha mai avuto modo di incontrare mia madre, che amava molto Montauk. Quando ho scritto questo pezzo ho immaginato i primi momenti di mia figlia nella nostra casa: andiamo al mare insieme, guardiamo l’oceano, e poco lontano c’era Kate a salutarci».

“Candles” (2012)

«Durante tutta la malattia di mia madre, che sapevo era terminale, ho dovuto suonare parecchio in tour. In quel periodo mi aiutava e arricchiva spiritualmente andare in chiesa e accendere le candele. Non sono una persona religiosa – non pregavo nessun santo o divinità – ma andavo ad accendere le candele sotto la Vergine Maria. Quando ho finito il tour, sono tornato a Montreal per stare con mia madre fino alla fine, ed ero con lei quando è morta. Subito dopo sono andato in una chiesa dietro l’angolo, e non c’erano candele. Ho attraversato la strada e ne ho trovata un’altra – ci sono molte chiese a Montreal – e anche loro le avevano finite. Sono andato a dormire, e il giorno dopo sono andato in un’altra chiesa nella parte francese della città. Avevano candele, ma erano tutte elettriche e si accendevano premendo un piccolo bottone. Non avrebbe funzionato. L’ho preso come un messaggio da mia madre: “Sto bene, non preoccuparti per me. Vivi la tua vita, io continuo il mio viaggio”.

Due settimane dopo ero a Parigi, camminavo vicino alla cattedrale di Notre Dame e ho deciso di entrarci. Era magnifica. Il sole passava attraverso le vetrate, l’incenso bruciava e si sentiva cantare un coro. C’erano candele ovunque. Ho pensato all’improvviso che quello era il posto dove accendere la candela di Kate. Forse voleva un posto migliore, non la chiesa all’angolo. Voleva la cattedrale di Parigi!

Questa storia si collega a un altro evento che risale a molti anni prima, quando a Parigi ho fatto coming out con mia madre. Avevo 18 anni. Considerando cosa pensava della mia sessualità, l’ho messa davvero in difficoltà. Il giorno dopo è andata a Notre Dame vestita come una cattolica penitente, anche se non lo era affatto. All’improvviso è regredita in questa vecchia signora irlandese, diceva di aver pregato e di aver ricevuto un messaggio da dio che le aveva detto che Rufus era come tutti gli altri e che doveva amarlo. Dopo tutti questi anni, anche io ero lì ad accendere le candele e pregare per un qualche tipo di messaggio. È arrivato mentre uscivo dalla cattedrale: “Rufus, l’unico modo per superare tutto questo è essere grato”. Solo pensarci mi strozza le parole in gola. L’ho preso come un comandamento. E ancora oggi vivo seguendolo».

“A Woman’s Face” (2016)

«Robert Wilson, il regista teatrale, è una figura importante sia nella mia vita che in quella di mio marito. Nel 2009 abbiamo lavorato insieme a uno spettacolo sui sonetti di Shakespeare per il Berlin Ensemble, e ho scritto tantissima musica basata su quei testi. A Woman’s Face è arrivata molto presto. Mi avevano avvertito, dicevano che lavorare con Shakespeare è molto difficile, soprattutto i sonetti. Io ho solo ascoltato quello che le parole mi dicevano musicalmente. Ho passato tanto tempo a sentire musica grandiosa – Wagner, Janáček, Messiaen, Mahler – e in un certo senso sono riuscito a fare comunione con il loro spirito. Per me, quel sonetto dimostra quanto fosse moderno il punto di vista di Shakespeare. Parla di innamorarsi di un ragazzo con l’aspetto di una ragazza. Era profondamente convinto di idee gender fluid che oggi sembrerebbero incredibilmente nuove, ma nel Rinascimento lui ci giocava come un bambino».

“Unfollow the Rules” (2020)

«Un giorno nostra figlia Viva è entrata nella stanza e ha detto: papà, a volte vorrei solo non seguire le regole. È un messaggio diretto, perfettamente sensato, che fa pensare anche un po’ a Facebook, dove si smette di seguire le persone. La canzone parla di come mi sento adesso: rifletto, osservo e disseziono la mia vita. Sto tornando indietro nel tempo e osservando tutte le decisioni che ho preso, tutte le relazioni che vivo adesso e quelle che ho vissuto in passato. Ho visto la morte, la malattia, il lutto e la gioia, e sto cercando di capire di cosa ho bisogno per andare avanti. Cosa devo conservare? Di cosa devo liberarmi? Qual è l’essenza della mia esistenza?

Non è un momento facile, ma è anche molto soddisfacente, soprattutto perché sono ancora in salute. Dopo aver affrontato la morte di mia madre e aver visto mio padre invecchiare… so che ho ancora poco tempo prima di dovermene preoccupare, toccando ferro. Ma è bene mettere tutte le cose in ordine.

Nel bene o nel male, ho deciso di continuare questa tradizione di musica autobiografica. Ho sempre pensato che scrivere canzoni fosse un processo simile al confessionale, e sono felice di aver preso questa strada, perché qui c’è una verità. Ora che abbiamo una figlia, a volte ho paura di essere troppo struggente, diciamo così. Ma a lei sembra piacere molto».

Iscriviti