“Señores y señoras, nosotros tenemos más influencia con sus hijos que tú tiene. Pero los queremos. Creado y regado de Los Ángeles, ¡Juana’s Adicción!”. Chiunque abbia vissuto anche solo di striscio quel momento musicale a cavallo fra gli anni ’80 e ’90 interessandosi alle sonorità cosiddette alternative ha ben presente questa frase. Che è accompagnata da un riff che esce dalla chitarra Dave Navarro come una scarica di sesso e adrenalina.
È l’incipit di Ritual De Lo Habitual, secondo disco in studio dei Jane’s Addiction, ovvero l’album che li ha resi rockstar di fama mondiale, lanciati nell’arena del grande rock (in un’epoca pre Nevermind, peraltro, in cui il concetto di rock alternativo è ancora quasi una goffa locuzione). È così che entrano prepotentemente nelle case dei ragazzi dei quartieri periferici, nelle autoradio, nei dormitori dei college e delle università. Da quel momento i Jane’s non sono più una band di nicchia per freak losangelini con l’hobby della droga o per sparuti fanatici sparsi nel globo. Ma Ritual De Lo Habitual è anche l’album che li ha polverizzati.
A 30 anni di distanza dalla pubblicazione (21 agosto 1990) e con il turbine dei ’90 – pensiamo ai fenomeni grunge, nu metal, pop punk – ormai cristallizzato nella dimensione della storia, il senno di poi può aiutare a comprendere l’impatto di un simile disco. Il panorama rock dell’area statunitense, in particolare, era dominato da certo hair/glam/pop metal, retaggio della fioritura del genere avvenuta negli anni ’80: Mötley Crüe e Guns N’ Roses su tutti, ma anche Poison, Cinderella, Ratt, Warrant, Skid Row. Un dominio quasi incontrastato, in cui quel capolavoro per iniziati che era stato Nothing’s Shocking era rimasto confinato nella nicchia (calda, accogliente e rassicurante finché si vuole, ma sempre nicchia). Però col secondo LP in studio i Jane’s Addiction miscelarono un cocktail di funk, metal, post punk, classic rock e psichedelia che, con un supporto appena dignitoso – il minimo sindacale, in realtà – da parte della Warner sfondò a calci l’ingresso del mainstream.
Esistono due scuole di pensiero ben definite, ognuna delle quali identifica l’uno o l’altro disco come il capolavoro del gruppo. Ma, al netto dell’accademia, è innegabile che Ritual De Lo Habitual abbia lasciato un graffio profondo nel panorama rock globale di quel 1990 in cui molto stava covando sotto la cenere, in attesa di esplodere da lì a pochissimi anni. Ma vediamo come sono andate le cose.
È interessante notare come i brani di Ritual De Lo Habitual non fossero composizioni nuove, scritte per l’occasione. Lo ha confermato Perry Farrell a Rolling Stone nel 2015, spiegando: «Avevo conservato i nostri pezzi migliori per il secondo album in studio, perché non volevo che si pensasse che era il classico buco nell’acqua del secondo disco. Pezzi come Three Days e Then She Did sono molto sofisticati […]. A mio avviso, Three Days era la nostra Stairway to Heaven. Eravamo all’apice come band: sentivo che era nostro dovere uscire fuori e sbaragliare tutti con un sound che li avrebbe fatti sballare per il resto delle loro vite».
Anche Dave Navarro, nel corso della medesima intervista, dichiara: «La maggior parte di quei pezzi erano già stati scritti ancora prima che incidessimo Nothing’s Shocking. Facevamo già Ain’t No Right, Stop e No One’s Leaving – le avevamo tutte in scaletta, c’era anche Three Days. Quando siamo entrati in studio per registrare il secondo album, le suonavamo col pilota automatico, naturalmente».
Un pilota automatico che è la salvezza di un progetto a rischio di naufragare ancora prima che sia incisa su bobina una sola nota. Il motivo principale è semplice: Farrell e Navarro sono entrambi tossicodipendenti, persi nel turbine della party life da rockstar selvagge. Sono inaffidabili, schiavi della disponibilità di eroina, volubili come prime donne da avanspettacolo e spesso troppo obnubilati per dare artisticamente il meglio di sé. L’unico davvero pulito nella band, in quel momento, è il bassista Eric Avery, che sta persino seguendo un corso di astronomia all’università.
Ma non è tutto: tra Avery e Farrell è in corso una guerra fredda destinata a minare per sempre il loro rapporto. Pare infatti che il bassista, qualche tempo prima (e prima di ripulirsi), durante una serata di quelle ad alta fattanza abbia messo la lingua in bocca (peraltro senza incontrare la minima resistenza) alla compagna e musa di Perry, Casey Niccoli. Un gesto che il frontman non ha mai voluto perdonare, neppure di fronte alle scuse ripetute delle parti coinvolte. Nel 2001, in un’intervista rilasciata a James Halbert per la testata britannica Classic Rock, Farrell ha detto chiaro e tondo: «Le tensioni fra Eric e me si ripercossero su tutta la ‘famiglia’. A qualcuno venne chiesto di schierarsi, altri abbozzarono senza sapere bene cosa stava succedendo».
Inoltre, per finire, i Jane’s Addiction stanno cercando di sbarazzarsi del loro manager Gary Kurfirst prima della scadenza del suo contratto. Kurfirst, businessman navigatissimo, nella primavera del 1990 – alla vigilia delle registrazioni – trascina letteralmente Farrell in un’aula di tribunale a New York: davanti a un giudice, distrugge il cantante e la sua band, colpevoli di non volere onorare un contratto sottoscritto e redatto a regola d’arte, con l’aggravante di non dare motivazioni valide per questa decisione (visto che Kurfirst ha lavorato molto, e bene, per elevare il profilo e gli introiti dei Jane’s). La linea difensiva di Farrell, basata su un semplice «siamo una band di tossici, non sappiamo ciò che facciamo», viene polverizzata senza il minimo sforzo – si dice che Perry abbia addirittura pianto in tribunale, rendendosi protagonista di una scena quantomeno imbarazzante. Risultato: una penale salatissima da pagare per il gruppo. Nessuno sconto.
Quando i Jane’s entrano in studio, fra giugno e luglio del 1989, l’atmosfera è pesantissima. Farrell, oltre a essere infognatissimo con l’eroina e chissà quant’altro, non si fa neppure vedere: non sopporta l’idea di essere chiuso in una stanza con Avery. Solo dopo diversi giorni viene raggiunto un accordo: quando c’è il bassista, il cantante non presenzia. E viceversa. Navarro è in pessima forma, più interessato ad aghi e brown sugar che alla musica, tanto che nel volume di Brendan Mullen Whores, dedicato alla storia dei Jane’s, dichiara candidamente: «Non ricordo praticamente nulla delle session di Ritual De Lo Habitual. Per quanto ne so io, potremmo anche essere stati in studio per cinque minuti solamente». I lavori, dopo alcune settimane, vengono interrotti: l’eroina e le sostanze stanno vincendo. L’unica cosa da fare è prendersi una pausa, magari tentando un percorso di rehab. In realtà i ragazzi si accontentano di un lungo stop, per poi riprendere registrazioni e cattive abitudini come se niente fosse.
Dietro al mixer, nel ruolo di produttore, c’è nuovamente Dave Jerden (già con loro nel disco precedente e con un curriculum di tutto rispetto: Talking Heads, Red Hot Chili Peppers, Rolling Stones, David Byrne/Brian Eno). Jerden riesce in qualche modo a portare a casa il risultato, dando peraltro un sound più duro e contemporaneo ai Jane’s, giocando tutte le carte a sua disposizione. È anche in grado, in una sola occasione quasi magica, di radunare l’intera band tutta insieme in studio: quel giorno viene incisa Three Days, in una take unica – si narra – nonostante la lunghezza (11 minuti circa) e la complessità.
Il risultato di queste session rocambolesche – in cui è evidente che la band ha superato il punto di non ritorno su più fronti, a cominciare da quello degli abusi, passando per il logoramento dei rapporti interpersonali – è un album con una sorta di doppia personalità, presentata su due lati distinti. Il lato A è caratterizzato da brani più energici, esuberanti, dalle frenetiche tinte funk condite da un hard rock mai banale, ma a elevato potenziale commerciale – non a caso qui si trovano i due singoli Stop e Been Caught Stealing (il cane che si sente abbaiare nel pezzo è di Farrell: voleva entrare nella cabina per registrare le voci, dove aveva dimenticato un giocattolo di gomma). Materiale digeribile, anticipatore di quella rivoluzione del rock alternativo che stava per incendiare il panorama musicale.
Il lato B, invece, vede i Jane’s Addiction abbandonare ogni inclinazione radiofonica per inanellare una mistica trimurti composta dalla suite epica Three Days, la dolente Then She Did (dedicata alla mamma di Farrell, morta suicida) e una Of Course dai sapori orientali. Pezzi sfaccettati, articolati, che una parte della critica – all’uscita dell’album – bolla come troppo sognanti e psichedelici, poco immediati, ma ormai il dado è tratto e, con buona pace dei detrattori, il disco esplode letteralmente grazie anche ai passaggi video su MTV.
I problemi, però, sono sempre tanti e non di poco conto. Partiamo dal fatto che, per ammissione stessa di Farrell, l’album nasce come una sorta di ode al sesso a tre (“Blessed is Ritual De Lo Habitual, a love story between three people”, scrive nel booklet del CD). E la copertina, come già accaduto per Nothing’s Shocking, non incontra il favore della Warner: è nuovamente una scultura (in cartapesta e fil di ferro) firmata da Perry, ancora con la sua musa-compagna Casey Niccoli immortalata così come mamma l’ha fatta. Ma, stavolta, in compagnia di Farrell stesso e dell’amica/amante Xiola Blue (pseudonimo di Lisa Chester), scomparsa per overdose qualche anno prima. In pratica l’opera rappresenta una threesome, in cui i tre sono a letto tutti assieme, a illustrare il testo di Three Days che racconta proprio 72 ore di sesso, droga e arte consumate dai tre a metà anni ’80. Ovviamente la Warner e la puritanissima America non sono pronte ad accogliere una simile provocazione e l’album viene stampato quasi subito con una nuova copertina bianca, con passi del 1° emendamento trascritti. Inoltre Been Caught Stealing e il video promozionale di accompagnamento incontrano le ostilità della casa discografica: il pezzo e il clip vengono inizialmente tacciati di incoraggiare al furto e al taccheggio. Ma di fronte alle richieste dei fan, che telefonano alle radio e chiedono il pezzo a gran voce, anche la Warner cede.
All’uscita del disco, la band non è particolarmente soddisfatta del risultato: per esempio a Eric Avery sembra viziato da una produzione eccessiva. Occorre però onorare gli impegni promozionali, per cui i Jane’s Addiction partono per un lungo tour, 13 mesi circa. L’atmosfera è tesissima, ma viene raggiunto un accordo: il gruppo, alla fine degli impegni live, si scioglierà e ognuno andrà per la propria strada (o quasi, come testimonia la storia).
Ted Gardner, il nuovo manager, nel libro di Mullen spiega: «Avrebbero fatto il tour e poi si sarebbero sciolti. Eravamo d’accordo, io e il gruppo. Non lo sapeva nessun altro. Ognuno di noi indicò i posti dove avrebbe voluto andare – Australia, Nuova Zelanda, Jugoslavia, Vienna. Suonammo anche a Roma, a Pasqua, e ci alloggiarono in un bellissimo albergo vintage a due isolati dal Vaticano… nel caffè a fianco vendevano tazzine di espresso ed eroina».
I quattro praticamente non si parlano più (in un’occasione Farrell e Navarro vengono alle mani davanti a migliaia di fan), persi ognuno nel proprio trip. Ma sul palco riescono spesso a restituire emozione ed energia come pochi altri in quel momento sono in grado di fare. È anche il momento della nascita del festival itinerante Lollapalooza, ideato da Farrell, che s’inaugura in agosto del 1991 e che i Jane’s tengono a battesimo come headliner. Un altro tassello chiave per il fiorire del rock alternativo e del suo successo commerciale.
Ed è così che, come in una specie di fiaba alternative rock, i Jane’s Addiction evaporano dopo poco più di un anno on the road, lasciando una eredità che nel corso degli anni acquisirà un peso specifico sempre più importante. Hanno il merito di avere aperto – insieme ad altri come Soundgarden, Red Hot Chili Peppers e Faith No More – una via verso il mainstream per un tipo di rock prima di allora inconcepibile per il consumo da parte del grande pubblico.
Se Nothing’s Shocking ha costituito il capolavoro di bizzarria, originalità e inaspettata freschezza, Ritual De Lo Habitual ha fatto da ariete, buttando giù l’ultima barriera che separava un underground magmatico dalle praterie del grande pubblico e del mercato major. Se questo abbia giovato o meno, col senno di poi, non è semplice da elaborare. Certo è che da quel momento – almeno per una manciata di anni – se ne sono viste (e ascoltate) delle belle…