Per la Nigeria Fela Kuti non è stato soltanto un’icona pop, fautore della trasformazione dell’afrobeat da fenomeno folkloristico locale a tendenza globale capace di penetrare i mercati occidentali e consacrarsi come vero e proprio portato di costume: quella di “The Black President” è stata una figura decisamente più complessa e sfaccettata, punto d’intersezione di mondi apparentemente distanti.
È impossibile distinguere il trombettista geniale, capace di ibridare elementi di musica tradizionale Yoruba, jazz e funk in una contaminazione felice e riuscitissima, dall’attivista che sceglie di impugnare con fierezza la bandiera del panafricanismo e immedesimarsi totalmente con il popolo nigeriano, sino al punto di porsi alla testa dell’opposizione al governo militare supremo di Muhammadu Buhari e scontare 20 mesi di ingiusta detenzione.
Nell’orizzonte di Fela, musica e politica rappresentavano due dimensioni indistinguibili: un portato ben visibile anche nell’esperienza di suo figlio, Seun, che nel 1997, e subito dopo la morte del padre, ha scelto di vestire i panni di frontman degli Egypt 80 e portare avanti la sua eredità artistica: aveva appena 14 anni. Il passaggio di consegne, però, non ha seguito le direttrici a cui siamo abituati in Occidente, impregnate su un conflitto irrisolvibile tra l’irraggiungibile grandezza paterna e il doloroso tentativo (perso in partenza) di emulazione da parte del discendente; per Seun, dare continuità all’elaborazione artistica paterna assume un significato completamente differente, quasi collettivista: «Non è stato un peso perché a legarci non era il cognome, ma la musica e l’amore per l’Africa e la sua cultura, e questo collante ci ha legati per sempre e, di riflesso, mi ha posto in connessione con tutti i suoi i sostenitori», racconta a Rolling Stone. «Avevamo un rapporto molto intimo, eravamo inseparabili, era mio padre e anche il mio miglior amico: un “daddy boy”. Oggi è il venticinquesimo anniversario dalla sua morte (l’intervista è stata realizzata il 2 agosto, ndr), ed è un giorno speciale per ricordarlo. Assumersi il fardello di tramandare un messaggio così potente è una grossa responsabilità: non è solo per mio padre che oggi continuo a battermi attraverso la musica, ma per il mio popolo».
È con questo spirito che Oluseun Anikulapo Kuti, conosciuto semplicemente come Seun – proprio come suo fratello Femi, anch’egli musicista – interpreta la missione di trasmettere i valori paterni alle generazioni future attraverso una musica concepita, in primis, come linguaggio universale capace di andare oltre gli schemi e restituire il segreto del mondo senza esplicitarlo: non si tratta soltanto di tramandare gli ideali di un’icona unica e consacrata a gloria imperitura, ma di mantenere fermi i presupposti di un’utopia irrealizzata e rafforzare i legami di solidarietà tra tutti i gruppi etnici indigeni e della diaspora di origine africana. Nel portare avanti questa missione di ordine superiore, però, Seun si premura di fare a pezzi ogni possibile retorica sulla musica come “maestra di vita”. È convinto che «A salvare il mondo non saranno mai le canzoni, ma le azioni». Come avrete intuito, in maniera simile a Fela, anche Seun rifugge da ogni forma d’ignavia: nella sua visione non esistono barriere capaci di separare l’arte dalla militanza, anzi, prendere posizione è la massima forma di espressione artistica. Nel 2012 partecipato alle proteste di Occupy Nigeria contro la politica di rimozione dei sussidi per il carburante ordinata dal presidente Goodluck Jonathan e, nel novembre 2020 ha guidato la rinascita del defunto partito politico di suo padre, il Movimento del Popolo, con l’intenzione di registrarlo presso l’ente elettorale nigeriano, l’INEC.
Anche i fatti dello scorso 29 luglio, il giorno in cui Alika Ogorchukwu, venditore ambulante nigeriano di 39 anni, è stato barbaramente aggredito e ucciso nel centro di Civitanova Marche dall’operaio 32enne Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo, per Seun hanno un chiaro significato politico: «Penso che molti italiani, e più in generale gli europei, abbiano delle difficoltà nell’accettare chi cerca di entrare in questi Paesi, soprattutto quando si tratta della popolazione africana. Eppure, gli africani hanno il diritto di andare alla ricerca di nuove possibilità per il proprio futuro, soprattutto dal momento in cui le nostre risorse vengono poste puntualmente sotto il controllo di altri Stati, che non hanno tenuto conto delle esigenze delle popolazioni locali e hanno pensato esclusivamente ai propri profitti, lasciando gli africani in condizioni di povertà economica e disagio sociale». Ecco perché «Se vogliamo che i fenomeni di immigrazione clandestina diminuiscano, allora è giusto che gli africani si riapproprino delle proprie risorse e che i grandi affari, l’influenza politica, le istituzioni estere lascino al popolo africano il diritto di godere dei frutti della propria terra. Fin quando la vita di un essere umano conterà meno del business e della gratificazione istantanea fondata sullo sfruttamento della ricchezza di un altro continente, non potremo mai evolvere come comunità globale».
È anche per ribadire questo concetto che Seun ha pubblicato il singolo Love and revolution: «È una esortazione all’umanità ad esprimere amore, abbandonando l’accezione più capitalistica del termine. Nessuno pensa più al significato più nobile dell’amore: quello per le persone, per il mare, per gli alberi, per la natura. Forse, il cambiamento climatico a cui stiamo assistendo e la morte di Alika rappresentano soltanto alcuni dei tanti sintomi della messa a profitto del concetto più anti-economico che esista».