L’estate dappertutto. Sono le prime parole che si ascoltano nel disco. Il personaggio della canzone descrive il guado di una strada di città, con l’acqua che arriva alla vita. Poi, come spesso accade nella musica dei Fleet Foxes, la canzone confluisce in un altro pezzo in cui Robin Pecknold rende omaggio a musicisti che non ci sono più, soprattutto quelli poco noti come Richard Swift, i miti underground come Elliott Smith, giganti misconosciuti come Arthur Russell. E intanto si descrive mentre nuota accompagnato dal pensiero delle loro canzoni, per andare dove non si sa.
C’è questo senso di passaggio nel nuovo disco dei Fleet Foxes Shore. Accompagnato da un video di 55 minuti filmato in Super 16 millimetri da Kersti Jan Werdal, Shore evoca una soglia, una dimensione onirica in un cui s’incontrano reale e fantastico. Ed è forse per questo che Pecknold l’ha voluto pubblicare sulle piattaforme di streaming in corrispondenza con l’equinozio di settembre, nel minuto esatto in cui s’è passati dall’estate all’autunno, alle ore 15:31 del 22 settembre. Doveva essere un’uscita a sorpresa, ma il piano è saltato a causa di qualche indiscrezione di troppo, dall’avvistamento di alcuni cartelloni pubblicitari a Parigi, di un annuncio social di Pecknold che ha confessato tutto mandando in malora l’effetto sorpresa diventato ormai strumento di marketing.
Il cantante spiega in comunicato com’è nato il disco, come voleva che fosse. Desiderava che suonasse avventuroso, ma anche un approdo sicuro in tempi incerti. Non sapeva quanto incerti sarebbero diventati quando ha cominciato a comporre nel settembre 2018 con l’idea di fare un album semplice (il precedente Crack-Up non lo era affatto), ma a suo modo sofisticato. S’è messo ad ascoltare Arthur Russell, Curtis Mayfield, Nina Simone, Van Morrison, Sam Cooke, João Gilberto, il nostro Piero Piccioni. «Volevo fare un disco che comunicasse un senso di sollievo», scrive, «un album che esistesse in un spazio liminale fuori dal tempo, che abitasse sia il futuro che il passato, in grado d’accedere a una dimensione spirituale o personale inaccessibile». Complice la lettura di Walt Whitman, Pecknold ha trovato un’immagine in grado di simboleggiare questa idea di confine fra le cose: Shore, la battigia che separa terra e acqua.
L’album ha effettivamente questa presenza evanescente, a tratti è quasi impalpabile. Somiglia a un sogno a occhi aperti. È vero che ha qualcosa di semplice e assieme complesso. È un trionfo di chitarre acustiche, abbellimenti e fioriture, con il tipico stile canoro di Pecknold. Quando pensi di avere capito una canzone arriva una piccola svolta che ti spiazza. La cantante e compositrice Meara O’Reilly aggiunge la meravigliosa allucinazione sonora che si chiama hocketing, la pratica canora che consiste nello spezzare una stessa linea melodica in più parti da fare interpretare da più voci. Le chitarre hanno la presenza brillante che evoca certi vecchi dischi a cavallo fra anni ’60 e ’70. A volte c’è un pianista che sembra vagare sulla tastiera alla ricerca di qualche combinazione arcana. Ci sono fiati che carezzano e voci moltiplicate che rapiscono. Ci sono un modo di fare musica fuori tempo, fuori moda, e un suono pieno e sfaccettato. C’è la voglia di suscitare piccoli momenti di meraviglia.
Shore è stato registrato a New York, nello studio di Aaron Dessner dei National, e poi in Francia e a Los Angeles con vari musicisti, ospiti, pure un campionamento della voce di Brian Wilson. È più un disco solista da globe-trotter più che l’album d’un vero gruppo. In marzo, quando è stato chiaro che la pandemia avrebbe cambiato il mondo, il cantante aveva per le mani tanta musica e nessun testo. Le parole giuste sono venute in giugno, guidando senza una destinazione precisa per lo Stato di New York. «Registravo i testi col telefono, li appuntavo nei parcheggi. Nel giro di tre o quattro settimane avevo le parole di 15 canzoni». Le ha finite a Long Island e agli Electric Lady Studios, di nuovo a New York. È venuto fuori un disco fatto d’aria e acqua, elementi presenti un po’ ovunque nei testi. Si apre con l’immagine del guado, si chiude con una partenza dalla spiaggia, dalla battigia che dà il titolo al disco, mette addosso un desiderio di cambiare, di liberarsi dalle certezze che diventano fardelli, di abitare quella soglia fra sogno e realtà per un po’, per poi superarla. La verità, però, è che è spesso impossibile trovare un senso razionale alle parole di Pecknold. “Non riesco a separare ricordi e sogni”, canta. Non c’è niente da capire.
Pecknold prevede di pubblicare nel 2021 un altro album, questo davvero di gruppo, nove canzoni che completano quelle di Shore. Saranno composte con Morgan Henderson, Skyler Skjelset, Casey Wescott, Christian Wargo. Ha passato i dieci anni successivi al disco d’esordio Fleet Foxes in uno stato d’ansia e preoccupazione. Che cosa avrebbe dovuto fare? Che cosa avrebbe pensato la gente della sua musica? Qual era il suo posto nel panorama musicale? Quel disco era perfetto, quanto lo può essere un disco pop e nulla di ciò che ha fatto in seguito ne ha eguagliato la bellezza semplice e incantata. Nemmeno Shore ci arriva. È affascinante e sfaccettato. Ascoltato in cuffia – li avete 55 minuti di tempo? – è un’esperienza sonora meravigliosa, ma non contiene canzoni memorabili. Pecknold dice che potrebbe essere il suo ultimo tentativo di fare un grande disco. Forse lo è, lo scopriremo col tempo, solo che dopo avere ascoltato più volte le sue 15 canzoni non riesci a canticchiarne nemmeno una. Come un bel sogno che la mattina dopo non si riesce proprio a ricordare.