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Sorpresa, il French Touch non è svanito, si è solo trasformato

Ecco come da un piccolo locale parigino è fiorita una scena che prende le distanze dalla vecchia canzone francese. I nuovi artisti raccontano la vita dei trentenni, amano l'esotismo, cantano d’amore con ironia

Illustrazione: Stéphane Manel

Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000, un gruppo di studenti di belle arti di Parigi decise di trasformare la stazione ferroviaria abbandonata di Paris-Charonne, a pochi passi dal Père Lachaise, in un locale per concerti. Optarono per un nome evocativo: La Flèche d’Or, in onore del primo treno che collegava Parigi e Londra. Era la risposta di un gruppo di ragazzi di neanche 30 anni alla richiesta di una generazione di ascoltare musica di qualità, di farlo dal vivo e di svincolarsi dal passato cantautorale.

In quegli anni la Francia era diversa da oggi: c’era la sinistra al governo e un attentato in un locale era al massimo uno scenario da film. Intanto la nuova musica francese iniziava a essere famosa all’estero grazie ai Daft Punk e alla leggendaria serata Respect che, nata dalle ceneri del movimento anni ’80 dei rave, girava il mondo con dj e artisti tra cui gli stessi Daft Punk, Cassius, Étienne de Crécy, Bob Sinclar, Air e Phoenix.

La Flèche d’Or ha dato la possibilità di esibirsi agli artisti nati proprio dalla scia di questa nouvelle vague della musica francese di inizio millennio. La capienza del locale limitata a circa 500 persone rendeva intensi e memorabili i concerti. Qui ci sono stati importanti battesimi: Christine and the Queens, pur essendo di Nantes e non di Parigi, si è esibita per la prima volta in pubblico proprio nel locale e sempre qui tra il 2005 e il 2007 ci sono stati i primi show delle band che, dopo più di un decennio, sono ancora al centro della musica indie ed electro parigina. The Dø, Yelle, Cocoon, Poni Hoax, Jil is lucky, Naive New Beaters, il duo Hermane Düne sono solo alcuni dei gruppi che hanno testato la loro resa dal vivo in questo locale del nordest di Parigi.

La Flèche d’Or non lasciava indifferente neanche Pete Doherty tanto che era normale incontrarlo nel locale di Rue de Bagnolet o vederlo sul palco per una data annunciata un paio di giorni prima.

Yelle. Foto: Maciek Pozoga

Questa favola della musica parigina però non ha un lieto fine. Dopo gli attentati del 2015 e in particolare quello al Bataclan, inevitabilmente la musica live ha vissuto una crisi, tanto che questa boîte de nuit ha dovuto chiudere.

Comportandosi però con coraggio, negli ultimi cinque anni, lo stesso pubblico che frequentava la Flèche d’or si è ripreso i suoi spazi. Ha affollato alcuni bar del centro: il Pop In e il Motel nell’undicesimo arrondissement e il Supersonic sul Canal Saint Martin e, sentendosi forse più distante dall’occhio del ciclone, si è riversato nella banlieue di Montreuil, una Brooklyn à la française.

Intorno a questi luoghi e grazie al lavoro in particolare di due etichette indipendenti, la Microqlima e la Vietnam, si è ricreato un fermento musicale con una fortissima cultura della musica live. Uno dei protagonisti della scena è Antoine Bisou fondatore nel 2014 della Microqlima. L’etichetta ha in catalogo solo quattro band seguite strategicamente in ogni dettaglio: Isaac Delusion, L’Impératrice (quest’anno al Coachella), Pépite e Fils Cara.

Questi artisti incarnano una versione contemporanea del French touch. Figli putativi di Daft Punk, St. Germain ed Air, condividono il tocco elettronico dei connazionali Phoenix, M83, Cassius che fa impazzire mezzo mondo, ma mantengono una matrice indipendente. Le band dell’etichetta ben rappresentano una generazione di musicisti che sta arricchendo il panorama contemporaneo della città e che è, o almeno era prima della crisi sanitaria, in piena fioritura. Gli artisti collaborano tra di loro in un continuo gioco di rimandi che favorisce l’intero ecosistema. Basta fare un rapido giro su Spotify per trovare tanti featuring: Sonate pacifique del 2014, ad esempio, è uno dei più grandi successi di L’Impératrice registrato in collaborazione con il duo Isaac Delusion.

Nei testi i musicisti parlano della vita dei trentenni e della confusione generazionale. In Hurricane, Fils Cara dice che “la gente alla mia età non fa ciò che faccio io, vanno da qualche parte, mi piacerebbe sapere dove” e con una certa chiaroveggenza in Les honoraires afferma che “non sei solo in quarantena”. Quando raccontano l’amore, lo fanno con ironia. Yelle in Je veux te voir, rubando un certo tipo di linguaggio tagliente a Liz Phair, canta: “Voglio vederti in un porno (…) per sapere tutto della tua anatomia”.

Un’altra caratteristica peculiare, forse figlia del passato coloniale, è la fascinazione per i paradisi lontani. Ne è l’emblema Julien Doré, vincitore di The Voice e superstar francese che ha scritto più di una canzone al profumo d’olio di Manoi: Paris-Seychelles e Coco Câline fanno immaginare di essere su una spiaggia polinesiana invece che sulle rive della Senna.

C’è una forte passione per gli show dal vivo: non solo concerti, ma veri e propri format. Due esempi: l’open air Cui Cui è un festival della musica indipendente che riunisce 4000 persone al Parc de la Butte-du-Chapeau-Rouge, in un Mi Ami parigino. Nell’88° giorno dell’anno (88 come i tasti del piano) 8 artisti della scena contemporanea suonano nella chiesa di Saint Merry esibendosi solo piano e voce. Questi eventi, oltre ai concerti tradizionali, danno l’occasione agli appassionati di musica di vedere e ascoltare sempre qualcosa di nuovo e stimolante.

L’etichetta Vietnam ha in catalogo 11 artisti. I più noti sono il polistrumentista Olivier Marguerit, Chevalrex e Concrete Knives. Spiccano gli Hey Hey My My di Julien Gaulier, che oltre a essere musicista del duo è manager della Vietnam. Sin dal nome scelto che richiama la canzone di Neil Young, la band dimostra di avere un background un po’ diverso rispetto a quello colleghi. Cantano soprattutto in inglese e la loro Saturday sembra perfetta per il momento di quarantena che stiamo vivendo: “We are going nowhere”, dice il ritornello.

Isaac Delusion. Foto: Rene Habermacher

La pandemia ha messo a rischio la scena. «Il problema non sono le uscite dei dischi», spiega Gaulier, «ma i concerti. Non sappiamo quali festival si terranno e tutto è posticipato per il momento all’autunno. È una situazione grave per gli artisti e tutti i lavoratori intermittenti dello spettacolo che non hanno veri e propri contratti».

Intanto, circa 1500 organizzazioni attive nella musica live in tutta la Francia, ma in prevalenza nella capitale, si sono riunite in una federazione e hanno firmato un documento comune. Le perdite economiche del settore della musica live in Francia sono nell’ordine dei 300 milioni di euro tenendo conto dei circa 20 mila eventi cancellati o rimandati nel periodo che va dal 13 marzo al 31 maggio. Ovviamente se questo periodo dovesse estendersi il danno sarà maggiore.

Al di là delle cifre, preoccupa l’impatto psicologico che questo secondo stop forzato nel giro di pochi anni avrà sul comportamento del pubblico che ci metterà un po’ di tempo per riabituarsi a frequentare i concerti, soprattutto perché questa volta, rispetto agli attentati del 2015, il pericolo è invisibile. Da non sottovalutare il fatto che, una volta che le sale da concerto riapriranno contemporaneamente, ci sarà grande concorrenza. «Questa situazione» afferma la federazione «ci chiede di ripensare le nostre società e ci invita a riaffermare, in questi tempi complessi l’importanza del diritto alla cultura e alla musica come uno dei diritti umani fondamentali».

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