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‘Spirits in the Forest’ e le vite dei fan salvate dai Depeche Mode

Il film di Anton Corbijn, al cinema solo il 21 e 22 novembre, mescola le immagini di un live della band con le storie degli uomini e delle donne a cui hanno cambiato la vita, un racconto che intreccia generazioni e culture diverse

Foto: Kimberley Ross

Xilofono, flauto, kazoo. Pianole e chitarre giocattolo, forbici, cucchiai e grattugia. I DMK sono una bizzarra cover band dei Depeche Mode a conduzione familiare diventata famosa su YouTube grazie a versioni da favola di Enjoy the Silence, Shake the Disease e Everything Counts.

Dicken è il padre e vive a Bogotà. Milah e Korben sono i figli, che vivono però a Miami perché i genitori sono separati. Dopo il successo dei loro video, vengono chiamati a suonare a festival in giro per il mondo e quei due, tre concerti all’anno sono tra le poche occasioni che hanno per stare insieme.

Ma un’altra incredibile occasione è stata assistere al live del gruppo preferito di papà, i Depeche Mode, al Waldbühne di Berlino, data clou del Global Spirit Tour 2017/2018 al centro di Depeche Mode – Spirits in the Forest, il film di Anton Corbijn che arriva al cinema solo per due giorni, giovedì 21 e venerdì 22 novembre.

Il documentario racconta infatti le storie intime di sei fan dei Depeche Mode, seguendoli dai loro Paesi d’origine – Mongolia, Romania, Stati Uniti, Francia, Brasile e Colombia – fino in Germania per lo show di Dave Gahan, Martin Gore e Andy Fletcher. Ed è un viaggio che dura una vita. Tra una canzone e l’altra cantata e sculettata da Gahan sul palco a Berlino, i protagonisti si svelano un po’ alla volta, spiegando il ruolo determinante svolto nella loro esistenza dai Depeche Mode.

Nel 2017 i Depeche Mode hanno quotidianamente affidato la propria pagina Facebook a un fan: per un anno intero, ogni giorno un diverso, devoto admin ben felice di condividere foto, parole, ricordi legati alla band. Il regista Corbijn, storico collaboratore del gruppo, ha poi scelto tra loro i sei fedelissimi al centro del film: Daniel, brasiliano emigrato in Germania; Indra, da Ulan Bator, Mongolia; la californiana Liz, il rumeno Christian, la francese Carine e il colombiano Dicken, con i due figli.

Carine, per esempio, a 25 anni ha fatto un incidente in auto che le ha fatto perdere la memoria. Non ricordava più niente, neanche il volto dei propri genitori, ma le canzoni dei Depeche Mode sì. Liz, invece, racconta di aver affrontato il cancro ascoltando i pezzi dei Depeche, solo la loro musica in cuffia durante i cicli di chemio. Il suo amore per i Depeche Mode era nato ai tempi della scuola, quando non era affatto cosa comune che una ragazza afro-americana ascoltasse synth-pop britannico invece che hip-hop. E poi c’è Daniel, che ha fatto coming-out anche grazie ai pezzi dei Depeche Mode e, mentre ricorda il difficile confronto con i propri genitori, scorrono le immagini di Dave Gahan che canta Walking in my Shoes.

«Faccio scalo a Mosca e poi vado a Berlino», dice Indra alla nonna, in partenza per il concerto. Ha solo 22 anni e si è innamorata dei Depeche Mode da bambina, sentendo un loro pezzo alla radio, in macchina con il padre: fa la guida turistica a Ulan Bator e spiega che ha imparato l’inglese con i testi di Martin Gore.

Christian ricorda Bucarest ai tempi del comunismo, quando i suoi genitori si nascondevano per ascoltare musica dell’occidente capitalista: ama la fotografia e ha girato una personalissima versione del video di Enjoy the Silence, sui monti in Romania, costringendo il fratello a indossare la corona da Re come Dave Gahan.

In scaletta ci sono Where’s the Revolution, Never Let Me Down Again, Precious, Personal Jesus e Just Can’t Get Enough. Sullo schermo un mare di braccia al cielo, Dave Gahan muove le acque come Mosé e i fan con le lacrime agli occhi non ne hanno mai abbastanza, ne vogliono sempre di più.

Spirits in the Forest è un film incentrato sui Depeche Mode, ma nella sua semplicità potrebbe rappresentare qualsiasi altro artista e il proprio fandom. La musica, le canzoni, una passione che si tramanda di generazione in generazione travalicando i confini fisici e politici, regalando una lingua comune, una comunità di appartenenza o – come dicono i protagonisti di questo documentario – «la miglior Chiesa, un’esperienza spirituale».

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