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Spotify ha un problema con la musica indipendente

La piattaforma di streaming si trova di fronte a un dilemma. I milioni di brani autoprodotti che ogni anno mette online rappresentano un costo. Possono diventare un ricavo?

Foto: Fixelgraphy/Unsplash

Le piattaforme di streaming musicale hanno un nuovo numero preferito. In un recente annuncio di lavoro, Apple Music ha scritto agli aspiranti candidati: «Abbiamo iniziato con 1000 canzoni. Ora sono più di 70 milioni». Settimana scorsa Lyor Cohen, Global Head of Music di YouTube, ha annunciato una serie di nuove statistiche sul consumo di musica: «YouTube Music ha oltre 70 milioni di brani ufficiali, più di ogni altro servizio».

All’inizio di novembre, il CEO di Spotify Paul Vogel ha detto agli investitori che il servizio di streaming ora ha «da 65 a 70 milioni di brani» nella sua libreria, ovvero dai 15 ai 20 milioni in più rispetto alla stima fatta alla fine dell’anno scorso. L’incremento del numero di canzoni presenti su Spotify e sui suoi rivali può essere attribuito principalmente a un segmento in particolare dell’industria musicale: l’autoproduzione. Il che pone un problema di particolare interesse per Daniel Ek e soci.

Il 2 novembre Spotify ha annunciato il lancio di Discovery Mode, uno strumento che consente alle etichette e agli artisti di guadagnare visibilità nei consigli forniti agli utenti dall’algoritmo in cambio di una percentuale inferiore delle royalties. La notizia ha scatenato un dibattito accesso: Discovery Mode equivale a una bustarella? Di certo la funzione apre una nuova era per Spotify e suggerisce che l’azienda, che opera in deficit, sia sotto pressione per (e decisa a) mettere in campo una serie di trucchi per aumentare i suoi margini di guadagno così da convincere Wall Street che fa sul serio quando dice di voler trovare un modo per fare profitti. La conseguenza di un fallimento a questo riguardo, infatti, va ben oltre il valore delle azioni: la storia ci insegna che il ruolo di Daniel Ek come CEO potrebbe essere in pericolo se l’azienda dovesse faticare a farcela.

Da questo punto di vista, l’esplosione della musica autoprodotta sta diventando un bel fastidio per Spotify perché i costi connessi alla messa online di 10 milioni di brani in più ogni anno continuano a salire. Le finanze di Spotify non rendono particolarmente difficile far fronte a questa spesa, ma nei primi nove mesi del 2020 l’azienda ha ammesso «un incremento dei costi informatici pari a 16 milioni di euro, dovuto a un aumento nell’uso dei servizi di cloud computing e nei costi di licenza software» (Spotify usa Google Cloud per l’hosting dei suoi dati).

Mantenere online questo oceano di tracce autoprodotte non è solo una spesa per Spotify: è anche una possibile fonte di introiti ancora inesplorata. Non passerà molto prima che gli analisti di Wall Street facciano notare all’azienda che la piattaforma non gode della maggioranza degli introiti associati al settore della musica autoprodotta. Quanto è lucrativo quel settore? Basta osservare Believe, la compagnia madre del gigante della distribuzione indie TuneCore, che l’anno prossimo presenterà una IPO da 2 miliardi di dollari.

E allora, che cosa dovrebbe fare Spotify per risolvere il dilemma costo/opportunità presentato dalla musica autoprodotta? Secondo chi scrive, ha tre opzioni.

1. Lanciare un nuovo servizio a pagamento di upload per la musica autoprodotta

Nel settembre 2018, Spotify ha annunciato che avrebbe permesso agli artisti indipendenti di caricare gratuitamente i loro brani sulla piattaforma. Il mese dopo ha fatto anche di meglio, acquistando una quota di minoranza nel rivale di TuneCore, Distrokid, e annunciando che avrebbe presto consentito agli artisti di caricare le loro tracce non solo su Spotify, ma anche sulle piattaforme rivali. Solo nove mesi dopo, Spotify ha chiuso improvvisamente il suo esperimento di upload e distribuzione. «Il modo migliore per permettere a sempre più artisti ed etichette di fornire musica a Spotify è tramite il lavoro dei nostri partner di distribuzione», ha dichiarato l’azienda.

Dal punto di vista dei profitti, il grande errore di Spotify è stato di aver offerto gli upload gratuiti. Che cosa sarebbe successo se la piattaforma avesse fatto pagare agli artisti indie la distribuzione, giustificando il costo aggiungendo ulteriori servizi a pagamento?

È quel che fa Soundcloud che la scorsa estate – mentre Spotify portava a termine le sue operazioni di distribuzione della musica indie – ha acquisito per 10 milioni di dollari la compagnia di distribuzione e servizi Repost Network. Oggi il pacchetto base di Repost su Soundcloud costa agli artisti indie 30 dollari all’anno, offrendo la distribuzione digitale più servizi come playlist e strumenti promozionali. Considerando che Soundcloud oggi ospita 250 milioni di tracce, il business model della piattaforma può avere senso solo facendo pagare gli artisti che caricano di più.

Il business model di Soundcloud sta effettivamente cominciando ad avere senso: il suo segmento Creator Business, che include Repost, ha generato 54 milioni di dollari l’anno scorso. Soundcloud ha di recente detto a Music Business Worldwide che nel terzo trimestre del 2020 per la prima volta ha fatto registrare dei profitti.

2. Aumentare la qualità

Ai tempi in cui era un network di radio digitali e non una piattaforma interattiva alla Spotify, Pandora non accettava qualsiasi artista volesse caricare i suoi brani tramite un distributore: i musicisti dovevano essere approvati dal team di controllo qualità di Pandora.

Questa cosa faceva la differenza nella vita di molti artisti indipendenti. Ma forse Pandora era in anticipo sui tempi. Guardando la quantità esagerata di brani presenti nel database di Soundcloud (di nuovo: 250 milioni), viene da pensare che, a un certo punto, i servizi di streaming debbano pensare di implementare un sistema di filtraggio per separare i brani meritevoli dal rumore di fondo. Questo – il potere della scarsità, il ruolo di curatore – potrebbe diventare una carta vincente da giocare per Spotify, in un mercato musicale in cui lo streaming è tutto uguale.

Detto ciò, potrebbe anche essere un grande rischio. In Cina, un mercato spesso in anticipo sui trend musicali, gli artisti indipendenti non sono mai stati trattati con il rispetto con cui vengono trattati oggi, e per un buon motivo. Tencent Music offre incentivi finanziari ai migliori artisti autoprodotti affinché carichino la loro musica esclusivamente sulla sua piattaforma. Chiaramente Tencent pensa che questa sia un modo per dominare il mercato che non dà fastidio ai regolatori anti-trust. Spotify potrebbe non lasciarsi scappare una simile opportunità.

3. Scaricare il costo dell’hosting

Una strada con cui Spotify potrebbe prendersi una fetta del mercato multimiliardario della musica indipendente – senza tornare all’idea di diventare essa stessa un distributore – potrebbe riguardare i suoi rapporti con Google. Come detto, Spotify deve pagare ogni anno una bella cifra a Google Cloud per il mantenimento della sua libreria musicale in costante espansione.

Probabilmente Spotify paga Google milioni di dollari ogni anno giacché la sua libreria musicale continua ad espandersi principalmente per via degli artisti indipendenti. Quindi perché non dovrebbe scaricare il costo dell’hosting sugli artisti indipendenti stessi e sulla loro distribuzione? Non potrebbe trasformare l’hosting delle canzoni un servizio a pagamento (come il Discovery Mode) che gli artisti dovrebbero pagare?

La risposta a questa domanda, naturalmente, sta tutta nella soddisfazione dei clienti. Mentre Apple, YouTube (di proprietà di Google) e Amazon fanno abbastanza profitti in altri settori da potersi permettere di non far pagare il costo dell’hosting dei brani sulle loro piattaforme, per Spotify – che non ha altri business – potrebbe essere l’unica opzione sul tavolo.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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