“Nonostante i tocchi autobiografici, Morrison Hotel in realtà definisce in modo ancora più diretto l’America rispetto a The Soft Parade. Ma, come The Soft Parade, riguarda me e te soltanto per deduzione. La maggior parte di quello che è stato scritto a proposito del disco riguarda la musica, di come rappresenti un ritorno alla furia dei primi Doors, di come abbondino paura, viscere ed energia. Tutto questo è vero e può sorgere il dubbio che Morrison Hotel sia uno dei maggiori eventi musicali del rock nel 1970”.
Con queste parole si esprimeva Bruce Harris nelle pagine di Jazz & Pop nel dicembre del 1970. La genesi del quinto album dei Doors era stata tra le più travagliate della loro avventura musicale. Nella seconda parte del 1969 la band aveva rischiato seriamente di chiudere per sempre la carriera e compagni e l’incidente di Miami, dove Jim Morrison ubriaco aveva fatto un po’ di tutto e dove la polizia aveva interrotto il concerto, non era stato altro che l’ultimo atto di un’escalation di eventi sempre più incontrollabili che aveva portato il cantante sull’orlo della follia. Quell’estate, mentre i figli dei fiori raggiungevano l’apice della loro utopia nei tre giorni di pace, musica e amore nei dintorni di Woodstock, i Doors erano ormai i reietti d’America.
Anche per questo, e non solo per via di una pomposità che mal si sposava col loro classico sound, The Soft Parade faticava ad imporsi in classifica come avevano fatto gli album precedenti. A quello si aggiunse il rammarico per il mancato invito al raduno che sarebbe rimasto per sempre nell’immaginario globale. I Doors non avessero mai fatto parte del movimento flower power, ma era innegabile che partecipare a Woodstock avrebbe rappresentato l’occasione migliore per riprendersi dopo un momento così delicato. L’ufficio stampa si affrettò a dire che la musica della band non era adatta a location del genere, ma la verità, come mi confessò candidamente qualche anno fa il chitarrista Robby Krieger, nessuno voleva più avere a che fare con loro.
“Non potevamo suonare da nessuna parte”, ha scritto il tastierista Ray Manzarek nella sua autobiografia. “L’immagine di Jim fu messa sulla copertina di Rolling Stone su un finto poster in stile ‘wanted’ del vecchio West. Ricercato per atti osceni in luogo pubblico ed esibizione di parti intime, masturbazione e sesso orale simulati. Venivano pubblicati degli articoli che condannavano i disgustosi Doors in ogni città dove avremmo suonato”.
In questo clima da caccia alle streghe, Ray Manzarek, Robby Krieger e il batterista John Densmore decisero di affrontare Jim, o meglio Jimbo, il suo alter ego tossico e alcolizzato. Il suo comportamento, da sempre sopra le righe ma mai così disfunzionale, stava mandando tutto all’inferno. Era completamente insensibile alle imposizioni di qualsiasi genere, ma un tentativo andava fatto. “Jim siamo preoccupati, stai bevendo troppo”, gli dissero un pomeriggio a casa del padre di Krieger. “Avete ragione ragazzi. Me ne rendo conto e sto cercando di smettere”, fu la risposta spiazzante di Morrison, che si rese disponibile a rimettersi al lavoro. Per un attimo, l’anima apollinea del gruppo sembrava aver avuto la meglio sulla controparte dionisiaca. Il fisico di Morrison, in realtà, diceva ben altro. Grasso e trasandato, Jim era riuscito a realizzare più o meno consciamente il proprio piano: quello di demolire l’immagine di dio del rock che, non senza colpe, gli era stata cucita addosso nel corso degli anni.
La band che nel novembre del 1969 si ritrovò dunque insieme ai fidi Paul Rothchild e Bruce Botnick negli studi Elektra di Los Angeles sembrava finalmente pronta dimostrare di avere ancora molto da dire. “La pausa forzata ebbe come risultato un’esplosione di creatività di Jim e Robby”, ha detto Manzarek. “Eravamo carichi di nuove e forti canzoni e Jimbo non c’era più. Jim era rilassato e felice quanto poteva esserlo un uomo che rischiava di passare tredici anni in prigione. Tutto doveva suonare nello stile dei Doors. Niente ottoni. Niente archi. Solo i Doors. Doors allo stato puro. Puramente rock, blues, jazz, soul e amore. Amore puro”.
Le cose non andarono nello stesso modo per tutte le session, ma persino le tensioni aiutarono il risultato finale. Rothchild era sempre meno coinvolto nella faccenda: i deliri e i giochi di potere adolescenziali di Morrison l’avevano portato sull’orlo dell’esaurimento e l’utilizzo smodato di cocaina tendeva a fargli perdere le staffe più facilmente. Dal canto loro, i Doors avrebbero preferito un metodo di lavoro più snello e anche se non facevano più centinaia di take per realizzare un solo brano il produttore non aveva perso il vizio di provare dieci o dodici volte lo stesso pezzo. Naturalmente, Jim non aveva smesso di bere e più che amore puro i suoi testi continuavano a contenere presagi di morte. Su tutti, quel “I woke up this morning and I got myself a beer, the future’s uncertain and the end is always near” al centro di Roadhouse Blues, che rappresentava la risposta più sincera al monito degli amici: ormai la strada era segnata, non ce l’avrebbe mai fatta, era al di là delle sue capacità.
Anche i tragici fatti di Cielo Drive, amplificati dalla tragedia di Altamont avvenuta mentre la band registrava l’album non avevano fatto altro che confermare a Morrison le proprie oscure visioni, questa volta esplicitate in Peace Frog nei versi “blood in my love in the terrible summer, bloody red sun of fantastic L.A.”. Quel brano, insieme a Roadhouse Blues e a Waiting for the Sun sarebbe stato uno dei pochi a rimanere per sempre nell’immaginario collettivo anche di chi non era fan del gruppo. Qualche anno fa, interrogato sul perché di un album come Morrison Hotel i più ricordassero solo la prima traccia, Bruce Botnick rispose così: “Semplicemente perché con quel pezzo i Doors hanno creato la più grande canzone da American bar band di sempre. Non ho mai avuto molto altro da dire su Morrison Hotel se non che si tratta del classico album di transizione. Va collocato tra l’oscurità più assoluta e la risalita verso la luce. L.A. Woman sarebbe stata la più accecante delle luci”.