Forse è colpa dell’inizio della scuola che ti fa sentire già l’autunno nelle ossa. Oppure il fatto che sia stato un anno difficile e incomincia a pesare. Oppure si tratta del dibattere sull’ora solare, che forse dal 2021 sarà l’unica ora a esistere e, con i suoi sessanta minuti di buio a incombere, proprio non ci aiuta. L’umore, insomma, in questi giorni è più malinconico del solito. L’idea di non essere riusciti a lasciare ancora un segno ai posteri della nostra permanenza terrena è più persistente.
Fa strano così pensare che oggi Funeral, il debutto-capolavoro degli Arcade Fire, spenga quindici candeline. Oggi, non una settimana fa. L’idea di un funerale non dovrebbe di per sé suggerire la nascita di nessuno, men che mai di una band. A meno che non si abbia a che fare con credenti. In quel caso, il funerale non è solo il simbolo di una nuova vita ma l’anticamera della vita eterna. Il rifugio dell’anima per l’eternità. La certezza di aver vissuto nel giusto e di venire ricompensati da Dio. Scusate se è poco. Soprattutto se si parla di anime votate al sacro spirito del rock’n’roll che, per quelli come noi, è un po’ come trovarsi faccia a faccia con un Messia. Ecco, da questo punto di vista Funeral è uno degli ultimi misteri della fede apparso ai nostri occhi mortali e increduli. Uscito all’apice di un momento storico che vide sbocciare i più solidi album degli americani Warlocks, degli inglesi Cooper Temple Clause e dei connazionali Broken Social Scene, Funeral ha radici underground, una fierezza da periferia rurale, una fede religiosa mai pedante, un legame musicale con i Talking Heads concreto e mai volgarotto, una band di quindici elementi nella formazione di allora: eleganti come la città di Montréal (chi ha detto Leonard Cohen?) può suggerire e impegnati come i titoli di alcune canzoni (Rebellion, Wake Up) possono imbeccare.
Gli Arcade Fire sono stati fin da subito uno di quei gruppi che per passar inosservati bisognava essere dannatamente distratti. E poi ci son loro due. Win Butler e Régine Chassagne, co-leader e compagni nella vita. Lui altissimo, un Thurston Moore dell’indie-folk. Lei polistrumentista dal riccio impertinente. Tutto ancora inappuntabile. Nessun inestetismo, nessuna ciabattata fuori campo, nessuna caduta di stile. Roba da amore a prima vista. Found love in a graveyard, per dirla come i Veronica Falls – che dagli Arcade carpirono poi l’indagare nelle tenebre dell’anima, non senza una sottile ironia. «Il nostro sound rispecchia quel che singolarmente sono i componenti degli Arcade Fire – diceva la coppia all’epoca sulle pagine di Uncut – Qualcosa che non puoi controllare, che ha molto odio-amore da offrire e un mucchio di passione».
Forse non a caso questo disco è stato autoprodotto e registrato agli Hotel2Tango (lo studio analogico di Efrim Menuck e Thierry Amar), per poi essere dato alla Merge Records soltanto in un secondo momento. Prima che gli ingranaggi del business musicale ne compromettessero il risultato e forse la purezza – come poi infatti è successo negli anni a venire, fino al crack dopo il passaggio alla Columbia per il mediocre Everything Now di due anni fa. «Abbiamo iniziato a suonare e sono uscite cose parecchio interessanti, semplicemente. Non ci siamo imposti nessun modello. Del resto veniamo dal Canada, la patria di Céline Dion» ironizzava-ma-non-troppo Win Butler sul solito NME. Radici ancestrali e ossessioni attuali: questo è il binomio attraverso cui scorre l’ascolto di Funeral. Il frutto originario della penna di Win Butler, allora appena ventiquattrenne. Una musica apparentemente impossibile da realizzare. Una musica dalle ambizioni creative smisurate, che fa utilizzo smodato di impalcature orchestrali, piene di fisarmoniche, pianoforti, xilofoni, flauti e bucolici corni, violini e arpe, attrezzi che in mani sbagliate rischiano di causare dei disastri di proporzioni immani e/o cadere nelle paludi del kitsch. In Funeral, invece, ne sgorga una musica che trova la propria realizzazione nello spazio ora del sogno ora della fede (che poi forse sono la stessa cosa, o no?), e che proprio alla dimensione onirica consacra la fotografia dei tre video estratti per la promozione (Neighborhood #1 e #3 e la già citata Rebellion).
Con una bravura quanto meno inconsueta nel dosare il sentimento epico, il lirismo magniloquente e gli incastri strumentali, gli Arcade propongono dieci spartiti dal respiro certamente cinematografico e (a modo loro) pop. Si susseguono disorientanti costrutti melodici e progressioni emotive in forma di crescendo che sanno fare del perfetto dosaggio delle percussioni (e del rullante soprattutto) di Jeremy Gara e William Butler un vero punto di forza. Gli accenni wave dell’immensa Laika, tra fisarmonica e archi, riportano alla mente il gruppo di David Byrne e ci si stupisce di come un costrutto così vertiginoso sia stato creato in autonomia – laddove Byrne chiese spesso e volentieri l’aiuto da casa a Brian Eno. Per non parlar di Crown Of Love, un valzer indie che riesce coniugare il verbo di Bacharach a quello di Bowie come se nulla fosse. Sono davvero pochi a permettersi cose del genere, specialmente al debutto, senza risultare grotteschi. I The Decemberists forse, pochi altri. Pensateci. E poi ci sono i testi, dal sussurro, alla ballata, fino alla coralità più empatica in giro da anni. «Purify the colors, purify my mind /Purify the colors, purify my mind/ And spread the ashes of the colors over this heart of mine».
Amen, fratello Win, amen. Forse per questo l’album Funeral, in ossimoro al suo stesso nome, brucia di vita liberata dal cellophane dell’industria dell’intrattenimento verso il paradiso della musica di qualità – ed è uno dei pochi dischi con cui i vecchi addicted hanno cominciato a correre dietro qualcuno che non avesse l’età di vostro nonno. «Ogni ascoltatore si può prendere ciò che crede dalla nostra musica – diceva ancora Butler sull’imbrunir dell’estate del 2004 – Spero in senso positivo, anche se per me è essenziale che abbia un ruolo catartico e di liberazione delle proprie anime dal giogo della vita». Un volo magico che, dopo quindici anni, brilla ancora di luce propria. Mentre sopra di noi il cielo è sempre più nero.