Dopo aver trasformato il suo secondo Sanremo in una specie di “opera d’arte in tempo reale” (o in un enorme product placement by Gucci, per i più maliziosi), Achille Lauro l’ha rifatto con la nuova 16 marzo, la cui nascita è stata una sorta di epica della quarantena. La storia è questa: al momento del lockdown l’artista aveva appena iniziato a lavorare al pezzo in un Airbnb; con l’isolamento, ha allestito uno studio di fortuna direttamente dentro quella casa, registrando a distanza con gli altri musicisti intanto sparsi per il mondo. Il tutto, poi, è finito su Instagram, dove le stories hanno ospitato una sorta di diario di bordo della lavorazione, concluso lo scorso 19 marzo – cotto & mangiato, quindi.
Il suo profilo, insomma, è diventato un enorme teaser, megafono “per eccesso” di uno show fatto anche di screen di WhatsApp, note vocali, piccoli estratti, video del mixaggio. E ancora: proclami su una libertà di comporre mai piena come adesso, citazioni di Basquiat, spiegazioni del testo. Il titolo, per esempio, è per una ragazza: “16 marzo come il giorno in cui gliel’ho dedicata. Come il mese dei nuovi amori. Quel mese in cui ogni donna torna da chi non la starà cercando più. Come me”.
Ora che la canzone è uscita – col solito, enorme lavoro di estetica che definire di contorno è riduttivo – sappiamo che è come potevamo immaginarla dalle anteprime: una ballata d’autore pop-rock classica, in zona C’est la vie, ma molto più legata alla tradizione italiana. Non c’è nulla della samba-trap di un paio d’anni fa; dominano, semmai, il Vasco Rossi dei ’90, quelle delle chitarre elettriche morbide e pizzicate che diventano un fiume nei bridge e un assolo nel finale, come pure i ritornelli à la Stadio, per un Achille mai così robusto a livello melodico. Lo schema è ampiamente collaudato, se non da lui almeno dal resto della nostra musica, nonché radiofonico. Infine, la produzione semplice semplice crea un effetto vagamente nostalgico sul pop italiano dei primi 2000, mentre i coretti dell’inciso fanno il resto, in un pezzo davvero perfetto per gli stadi, in cui urlare quel “ti rinnamorerai a marzo” che è il succo del testo.
Dov’è il bello allora? Ecco: in un brano tanto tradizionale e già sentito, l’unicità è da ricercarsi nel modo in cui la voce di Lauro, sguaiata e arrogante, canti e si poggi su questo impianto canonico, generando una sensazione straniante, decadente, a suo modo riconoscibilissima. Da questa prospettiva, 16 marzo ha davvero fascino ed è tutt’altro che un passo falso, per quanto non sorprenda come altri pezzi del passato.
E proprio a riguardo, però, vorrei sollevare una questione. Un po’ per la pandemia che ha rivoltato le strategie promozionali di chiunque, un po’ per la questione Bugo-Morgan (che come trend, sui social, è stata scalzata direttamente proprio dal coronavirus), dopo Sanremo di Lauro si è parlato relativamente poco. Semmai si era fatto – e molto – durante il festival: quando spogliandosi aveva messo altra benzina sulla sua estetica, e rigorosamente prima che Sincero diventasse un meme. In seguito, infatti, forse Me ne frego (che stupiva più per l’esibizione, che per il pezzo in sé) non ha raggiunto i numeri che voleva: non su Spotify, dove ha 13 milioni di ascolti (C’est la vie in un anno ne ha fatti quasi il doppio, ma ci vuole tempo), quanto su YouTube. Lì il videoclip dopo un mese ha raggiunto ‘solo’ il milione di views, contro i 15 (da febbraio 2019, certo) di Rolls Royce. Ed era stato anticipato dagli stessi annunci sulla libertà finalmente raggiunta e dallo stile citazionistico che adesso, a poche settimane di distanza, abbiamo ritrovato per 16 marzo. Non ho dubbi di credere nella sincerità dell’artista, né che sia presto per parlare di una sua eventuale flessione, ma mi chiedo: che questa modalità di comunicazione per eccesso (stories, citazioni, annunci, visual), accompagnata a pezzi invece molto collaudati, possa stancare un pubblico che nell’ultimo anno si è, diciamo, decuplicato?
Perché – ed è questo il punto – Lauro ha sempre segnato un passo avanti nella carriera quando ha osato con le note, più che con la comunicazione: l’album Pour l’amour, che sdoganava a suo modo la samba-trap; Rolls Royce, che faceva inversione di marcia verso un percorso classic rock, ‘oltraggiando’ Sanremo; C’est la vie, e una svolta repentina nel pop. Ora, invece, come già Me ne frego ha deciso di non spiazzare. Di rimanere, soprattutto, relativamente sul sicuro, implementando una natura da stadio finora intravista, e chissà che un San Siro non possa davvero rappresentare un prossimo passo verosimile – a patto che gli interessi, ovvio. Ma rimane il dubbio: visti gli ultimi numeri, siamo certi che, per uno come lui, spingere sulla comunicazione, ma avere un atteggiamento conservativo nella musica sia la scelta giusta? Siamo sicuri che non possa stancare? Non si può dire ancora, ma il tradizionalismo di 16 marzo potrebbe già rappresentare un termometro indicativo, in primis per la salute del suo personaggio. Se andrà bene così, ovviamente, i concerti nelle grandi arene sarebbero più vicini che mai. La canzone già c’è.