“May I have your attention, please?”
C’è stato un periodo, verso la fine degli anni ’90, dove si iniziava ad ascoltare la musica con il lettore CD e le cuffiette col filo che si annodava sempre. Era quando per vedere il video di quell’artista dovevi accendere la televisione e cercare MTV – ché di YouTube e compagnia bella non se ne parlava ancora – e capitava che, se si era ancora con qualche dente da latte, ci si mettesse il fratello più grande ad accendere lo stereo in camera per farti sentire «questo qui che spacca». Era il periodo dove c’era distinzione non solo tra chi ascoltava il rock e la dance, ma anche tra chi riempiva gli stadi con il pop e chi masticava il rap; perché se c’era qualcosa di incrollabile, era la certezza che i bianchi facevano musica per i bianchi, e i neri erano imbattibili su quella per i neri. Tendenza che si potrebbe riassumere con un facile: a ciascuno il suo.
La volta che un tizio coi capelli ossigenati ha iniziato a sfondare nel mondo del rap, non sembrava vero che i bianchi potessero iniziare a fare (magistralmente) la musica dei neri – il contrario, invece, era già successo: vedi il caso di Prince, Michael Jackson, e tanto basta direi — anche se i Beastie Boys e i 3rd Bass avevano (a partire dagli anni ’80) aperto la strada al fenomeno. Come non sembrava vero che quel tizio, che ora si faceva chiamare Eminem ma anche Slim Shady, in ogni caso all’anagrafe Marshall Bruce Mathers III, fosse in grado di farlo, e pure meglio.
A quel punto il calendario segnava il 1999: erano passati due anni da quando Dr. Dre aveva trovato il demo di The Slim Shady EP nel garage di Jimmy Iovine (il presidente della Interscope Records); le etichette Interscope e Aftermath Entertainment avevano inserito Eminem nella propria scuderia; gli Stati Uniti avevano già iniziato a vedere trasmesso il primo video del primo singolo di quel ragazzo che faceva rap con la maestria di un nero, ma (novità) era bianco.
Noi intanto trafficavamo dietro il filo delle cuffiette, e The Slim Shady LP girava nel nostro lettore CD e in quello di altre tre milioni di persone in giro per il mondo, tanto da raggiungere il secondo posto della Billboard 200, certificarsi quattro volte disco di platino, vincere un Grammy per il Miglior Album Rap. Era la volta in cui Slim Shady rendeva chiaro finalmente a tutti quale fosse il suo nome (My Name Is), mentre trasportava il cadavere della moglie Kim nel bagagliaio della sua macchina, e diceva alla figlia Hailie seduta accanto a lui che le voleva bene, e su, dai: poteva aiutarlo a gettare in acqua la mamma (’97 Bonnie & Clyde).
Era anche la volta in cui iniziavano (gli altri) a dire che Eminem era un violento, un sadico, un misogino, alzando ancora di più il tiro delle critiche l’anno dopo, quando The Marshall Mathers LP sfondava vendendo 6,5 milioni di copie solo nel primo mese. A quel punto le parole tanto criticate erano sulla bocca di tutti, perché chiunque sapeva il ritornello di The Real Slim Shady, tutti cantavano di Christina Aguilera che gli aveva passato una malattia venerea e faceva sesso orale con Fred Durst, tutti mandavano a fanculo i critici a cui Eminem non andava giù, perché ormai tutti ammiravamo quello Slim Shady che faceva il suo ingresso insieme ad altri cloni nelle sale degli MTV Awards del 2000. Così come tutti apprezzavano la schietta onestà di un “non vi conosco, non vi devo un cazzo di niente”, di The Way I Am. O, perché no, la necessità di fare pace con la propria fama, in Stan.
Sul serio: da fan, cosa poteva importarci delle critiche che gli muovevano? Quello era rap. O per meglio dire: quello era Eminem. E nel 2002 potevamo dire di conoscerlo abbastanza per non stupirci né che il successivo album The Eminem Show venisse premiato come migliore album ai Grammy Awards, né che il film 8 Mile ripercorresse il suo passato difficile (e sbancasse al botteghino), né che il singolo Lose Yourself da cui era tratto vincesse persino un Oscar per la Migliore Canzone Originale nel 2003. Perché ormai avevamo perso il conto delle volte in cui lo Slim Shady di Without Me si era trasformato nell’Eminem di Cleanin’ Out My Closet, fino a tornare il primo M&M (da cui poi era stato tratto il nome Eminem, cioè la pronuncia delle due lettere vicine, nda) che, ricevendo il Grammy in quel 2003, ringraziava tutti gli MC che l’avevano ispirato a diventare il rapper che era.
L’anno dopo, con l’uscita di Encore era stata la volta del saluto all’alter ego Slim Shady, anche se con i D12 – i Dirty Dozen, ossia il gruppo di Eminem dai tempi della high school — noialtri ancora ne trovavamo traccia guardando il video di My Band. Quello dove a un certo punto c’era ancora lui con i vestiti tipici messicani, un paio di baffi finti e un tubetto di salsa piccante in mano: cosa che per noi Millennial non era una questione di appropriazione culturale, stereotipizzazione di un popolo, come scrive oggi quella Gen Z che pare trovare offensivo per tutti pressoché tutto. Quello per noi era solo Eminem che faceva Eminem; era solo Eminem che indossava ancora i panni di Slim Shady.
E che dire dell’omofobia? Bazzecole: l’ennesima critica a un modo di scherzare che oggi sarebbe ancora più condannato di allora. Se non si fosse trattata tutto sommato di una scemenza, allora come la spiegate quella volta ai Grammy del 2008, quando nientemeno che Sir Elton John si esibisce con Eminem in una indimenticabile versione di Stan? Sia chiaro: non era perché c’erano di mezzo intrallazzi tra major o colpe da espiare verso il mondo degli omosessuali, a cui Elton faceva da portavoce. È che i due erano (e sono tuttora) molto amici. Tanto che di sicuro Elton conserva ancora i due anelli a forma di pene (e tempestati di diamanti) che Eminem gli ha regalato per il matrimonio.
Fatto sta che 2005 Slim Shady era morto, ma anche Eminem non sembrava passarsela troppo bene. La raccolta Curtain Call: The Hits sembrava l’arrivederci che forse un po’ ci aspettavamo, ma a cui non eravamo pronti. Dopo la riabilitazione per dipendenza da sonniferi era la volta del silenzio, con il ritorno solo nel 2009 con Relapse che non ingranava (diciamo così) come i precedenti, e già l’anno dopo veniva superato da Recovery, che vinceva anche un Grammy per il Miglior Album Rap.
Intanto noialtri non trafficavamo più con i lettori CD e le cuffiette, ma accendevamo il computer e guardavamo (letteralmente) due miliardi di volte il video di Love the Way You Lie (con Rihanna) su YouTube. A dimostrazione del fatto che gli anni passavano e noi consacravamo Marshall Mathers ancora e comunque a leggenda. Forse anche perché al di là della musica, al di là delle passate beghe con (ex) moglie e madre, al di là della vita di produttore con la Shady Records, e al di là persino del cambio generazionale che era in atto (con relative sensibilità riguardo a certe tematiche), Eminem per noi rimaneva il nostro primo, fedele a sé stesso, M&M. Il comedy man che si prestava a fare una comparsata al David Letterman Show per dare dieci (ridicoli) consigli ai bambini senza battere ciglio (sul serio: ha mai sorriso Eminem?). Oppure quello che, nel 2013, rispondeva a un dissing di Afrojack, tagliando corto con un: «Afrojack, chi?», quando gli veniva chiesto da Will Ferrell un commento al riguardo, dopo la performance agli MTV Awards.
Ma rimaneva anche il fenomeno del rap che, nel 2015, entrava nel Guinness World Record per il numero di sillabe cantate in meno secondi – 4,31 parole al secondo, per l’esattezza – nel magistrale singolo Rap God. Ossia: in un capolavoro del genere, nonché uno dei successi insieme alle tracce The Monster e Survival, dell’ottavo album in circolazione (ed ennesimo vincitore del Grammy per Miglior Album), The Marshall Mathers LP 2. Dove a tornare a quel punto non era solo il nome di un album che fu in quel lontano 2000, ma anche lo Slim Shady che conoscevamo. Che però, due anni dopo, era chiaro fosse del tutto diventato adulto, riuscendo a dosare la propria identità senza scivoloni da tribunale del politically correct, e altresì calibrando il talento unico nelle collaborazioni con altri grandi come (per dirne un paio) Ed Sheeran (in River) e Beyoncé (in Walk on Water), nell’ultimo album del 2017: Revival.
In definitiva, dimostrandoci che, di volta in volta, Eminem era rimasto Eminem. Il ragazzo che veniva da una famiglia disastrata nel ghetto di Detroit, ma che non veniva mangiato dalla fama neppure in una villa sontuosa (sempre non lontano da Detroit). Il rapper che a fine anni ’90, poco più che ventenne, non si faceva problemi a perculare gli ingellati NSYNC, ma che nel 2016, già suonati da un pezzo i 40, non le mandava neanche a dire al candidato presidente Donald Trump (e non solo), nell’”eminemissimo” Campaign Speech. L’amico che, all’apice del successo manteneva la promessa di non dimenticare il gruppo di amici di sempre che l’avevano supportato (i D12), ma anche quello che, nel 2020, non mancava di sostenere l’amico (a sua volta) di sempre 50 Cent, con un discorso emozionante e una immancabile presenza dove c’è ora la stella di Curtis sulla Walk of Fame. Il ragazzo bianco che nel 2022 dimostra il proprio appoggio a Black Lives Matter, decidendo di inginocchiarsi alla fine della sua performance all’halftime show del Super Bowl proprio come fece la prima volta nel 2016 il quarterback Colin Kaepernick, in segno di protesta contro le oppressioni della polizia verso i neri.
Infine, l’artista che fin dalla prima volta ci ha fatto ridere e riflettere, sbeffeggiare con leggerezza e criticare senza mezzi termini, insegnando a noialtri che la strada per il successo non passa necessariamente per il fare ciò che si deve, e guadagnare ciò che si merita. Piuttosto, nell’avere il coraggio di dire sempre ciò che forse, per gli altri, non è sempre giusto; ma, per noi, rappresenta sempre ciò che si vuole.