Sembra di stare in Messico qui.
Anche se in Messico non ci sono mai stata.
Siamo arrivati tutti. Siamo in una bellissima casa di villeggiatura a pochi passi dal mare. Dall’altra parte della carretera gli ultimi nudisti si godono il vento che trasporta migliaia di nuvolette a forma di granchio, sembra un cielo di Escher.
L’acqua è turchese scuro, la sabbia sottile come quella delle clessidre piccoline.
A Formentera fa caldo di giorno, di notte invece è umido e bisogna mettersi una felpetta.
C’è solo una stanza in particolare in cui sia di giorno che di notte tira vento e fa sempre un pochino più fresco. È il salotto ed è proprio dove è appena stato allestito uno studio di registrazione. In cucina la regia, ai fornelli il master dei fonici: Riccardo Parravicini. Mani sul mouse e barrette proteiche a portata.
Taketo Gohara Chef si aggira tra il salotto e la cucina con un taccuino, in ogni pagina il titolo di una canzone del nuovo disco di Bianco.
Abbiamo otto giorni pieni per registrare in presa diretta il suo sesto album.
Bianco ha convocato i suoi musicisti di sempre, più l’amico Dente, in veste di fotografo e Federico Dragogna che ci raggiungerà per registrare il suo pezzo. C’è anche Francesco Coppola, in arte Procido, che realizzerà un mini docu su questa esperienza ed essendo io la sua ragazza, mi sono autoinvitata: sono a disposizione per cori, consulenze, ascolto barzellette, sciolgo, o meglio, creo dubbi, bevo poco e sorrido sempre.
Ma soprattutto voglio molto bene ad Alberto Bianco.Alle tastiere e flauti traversi, tra le due grandi porte-finestre che affacciano sul mare blu chiaro elettrico di Formentera Zevi Bordovach, per tutti Zevi (a’ grande), alla sua sinistra Matteo Giai, in arte Giai, il bassista, costantemente in controluce, alla sua sinistra ancora la batteria di Fil Cornaglia, poi una sedia vuota per Taketo con delle cuffie, e per ultimo Bianco, alla sua postazione, a chiudere il cerchio che guarda tutti.
Bianco scrive canzoni da 20 anni immagino, ma il suo primo disco Nostalgina è del 2011. Io conosco tutti i suoi dischi e mi hanno accompagnato mentre mi guardavo allo specchio appena uscita dalla doccia, mentre guardavo fuori dal finestrino in treno, mentre camminavo a passo svelto a Villa Ada in quei pomeriggi in cui pensi che uscire a camminare possa essere l’unica soluzione. E poi ai concerti.
La sua grande capacità è quella di riuscire ad essere semplice, mai banale, e quella di consegnare canzoni incandescenti anche se sono chitarra e voce. Le consegna con una struttura impeccabile, certo Taketo è qui per questo, qualche taglio di qua, qualche strumentale di troppo, qualche passaggio da allungare, l’intervento è più sulla veste delle canzoni, sugli arrangiamenti, l’interpretazione delle voci, intensità, cori, ma ecco la struttura ossea delle canzoni di Bianco è sempre solidissima: uno scheletro che cammina e ti viene a dire cose dolcissime e tristissime sulla sua vita di carne ed ossa che è stata vita fino a poco prima di diventare suono, di diventare una catena di immagini, semplici e da seguire come quando ti stendi sulla battigia e ti rilassi magari con la testa appoggiata a un sasso, il corpo segue l’andamento delle onde, e non ha né caldo né freddo, sta bene. In quel momento è lì nell’acqua, che sarebbe lì a prescindere da lui, magari in un angolo di paradiso. Sono così le canzoni di Bianco per me, stanno lì, se ti ci stendi dentro arrivano al nocciolo della bellezza, quella che si può solo sentire a pelle, non c’è inutile eccitazione, o forzata tristezza, è tutto intenso ma mite, naturale, nel senso più godurioso del termine, soprattutto in questo momento di collasso climatico.
Alle canzoni di Bianco ti ci devi abbandonare, non chiedono niente in cambio ma ti riempiono gli occhi di lacrime, c’è il Battisti di Umanamente uomo: il sogno e la sgroova degli Alabama Shakes, l’ironia di Wilco e la sintesi spiazzante di Sixto Rodríguez.
Bianco se torni da lui è sempre lì ed è bello.
Come Formentera, che anche se non ci vai è sempre bella.
Ci sono due grandi temi che Bianco tratta nelle sue canzoni, secondo me da sempre, che sono il tempo e la paura. E sono due vettori su cui molte delle nostre vite si misurano. Allora è bello vederli evolvere e capire a che punto sei del diagramma. Spoiler: in questo disco la trama si infittisce e Bianco è cambiato, ha gli occhi spalancati sulla vita, e in questo album si aggiunge un elemento nuovo gigante: la gratitudine.
L’industria discografica ha un brutto vizio, ci sono sempre dei compromessi da fare, e uno si convince che farli sia necessario, perché la musica è una pratica collettiva, e quindi devi dare retta alle persone con cui lavori, alla discografica, al manager, al produttore, però spesso gli sforzi sono tesi alla riuscita economica del progetto. E ci sta, è normale. Non dico sia giusto, ma è normale.
Ma qui è diverso, questa situazione è estremante protetta e libera allo stesso tempo.
Aver partecipato alla realizzazione di questo album mi ha fatto toccare di nuovo con mano il nocciolo della questione: espressione profonda di sé e quindi unica, condivisione, fiducia nel futuro, bellezza oggettiva. Non esiste giudizio su un disco del genere, è bello e basta, come può essere bella e basta una nascita, quando una cosa nasce non puoi dire, mah meh mmm però insomma, è un atto così potente che stai zitto e ne riconosci gli sforzi, il lavoro delle ostetriche, dei medici, anni e anni di studio messi a servizio di un atto naturale e dolorosissimo ma commovente dalla gioia.
Insomma io amo questo album e amo Bianco.
Lunga vita alla musica suonata, alle amicizie, alle ville sul mare, alla ricerca, all’espressione profonda di sé.