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Alla ricerca della “vera” Marianne Faithfull

Riascoltare a ritroso la sua discografia per capirne il lascito. Che non sta tra le note di ‘As Tears Go By’, ma nelle opere coraggiose, sperimentali, dallo spirito punk, nella voglia di scansare le celebrazioni e vivere il presente

Foto: Island/Universal

È difficile esprimere il vuoto che lascia la morte di Marianne Faithfull, artista dalla carriera multiforme, ma soprattutto donna che ha attraversato l’inferno e si è portata Satana in paradiso prendendolo per il collo. La sua esistenza fatta di estremi, con abusi di droghe e alcol, tentativi di suicidio, anoressia nervosa, vita da homeless e ripetuti tentativi di rehab, è stata più estrema di quella dei Rolling Stones, che a lei devono molto più della storia d’amore con Mick Jagger. Parte del repertorio iniziale dei Glimmer Twins nasce infatti da alcune intuizioni di Marianne: si va da Wild Horses a You Can’t Always Get What You Want fino a Sympathy for the Devil, per non parlare di Sister Morphine di cui è stata riconosciuta come co-autrice dopo una lunga battaglia per recuperarne i diritti.

La si ricorda come la diciassettenne pulita e bellissima di As Tears Go By, un ruolo “angelico” che la vuole ferma nella sua gioventù, eterna spalla dei maschi. E invece no, diventa Marianne Faithfull quando suo malgrado (perché nei vortici ci si entra sempre senza accorgersene) si tramuta in bad girl impegnata nella perenne battaglia con una vita che non le ha fatto sconti. Autrice di se stessa, attrice (fantastica la sua parte in Irina Palm), interprete sublime con la voce da usignolo trasformata dai traumi e dal whisky in un’ugola al vetriolo. Una punk ante litteram che diventerà infatti moglie di Ben Brierly dei Vibrators e che sintetizzerà nel capolavoro Broken English, ancora oggi album poco rassicurante (la title track parla di terrorismo ed è dedicata a Ulrike Meinhof), un melting pot di stili waveizzati (dalla disco al reggae al synth pop al dark blues) ai livelli del Bowie berlinese, se non meglio.

Al posto di ricordarla ragazza pura e incontaminata, meglio parlare della fine, di quello che ha lasciato all’oggi. La pandemia l’ha duramente messa alla prova. Contrae il Covid e nonostante l’età avanzata lo sconfigge, ma gli strascichi sono pesanti: i polmoni sono danneggiati, non potrà più cantare. Al posto di disperarsi pubblica She Walks in Beauty, un disco di spoken word in cui recita i poeti romantici inglesi, con l’aiuto di Warren Ellis, Brian Eno, Nick Cave e Vincent Segal, riuscendo a legare dei soundscape ambient HD con la musica contemporanea che non disdegna momenti concrete ed elettronico-orchestrali.

Insomma Faithfull ha sempre votato se stessa alla sperimentazione, spiazzando la critica. Non ha mai ceduto alle lusinghe delle mode o del mercato anche quando rivisitava il suo (ancora una volta) ingombrante passato. Negative Capability del 2018, dove rafforza il sodalizio autoriale quasi simbiotico con Nick Cave e con un Mark Lanegan in formissima, è un album prettamente folk, quasi un ritorno alle origini tanto che possiamo considerarlo la chiusura di un cerchio (non a caso troviamo una versione di As Tears Go By e una di Witches’ Song originariamente su Broken English).

Nel 2021. Foto press

Il percorso era tracciato, con Horses and High Heels del 2011 e Easy Come, Easy Go del 2008, dischi prevalentemente di cover, indugiava su un recupero degli anni ’60 interpretati con una voce alla carta vetrata, come se fossero trascinati fuori dalla caverna della memoria a fare i conti con l’attualità. Perché la Faithfull si è sempre circondata di giovani autori, nuove leve del rock e soprattutto di simboli del mondo alternativo: lo testimonia Before the Poison del 2004, il suo ultimo capolavoro di inediti, che la vede al comando scrivendo e producendo le canzoni insieme a PJ Harvey, Nick Cave, Damon Albarn dei Blur e Jon Brion per un suono ruvido e chitarristico a volte anche sottilmente emocore che sostiene memorie desolate e che giustamente molti hanno inteso come un Broken English composto dall’altra parte dello specchio.

Pochi anni prima, nel 2002, si era invece prodigata in un electro-art rock incredibile con Kissin Time, album riuscitissimo scritto con Beck, Blur, Billy Corgan, Les Valentines, Pulp. Il più anziano a partecipare al progetto era Dave Stewart degli Eurythmics, solo per dire che Marianne giocava nello stesso campionato di quelli che potevano esserle – e artisticamente lo erano – figli se non nipoti (nel 2014 ha scritto per lei anche Anna Calvi, tanto per dire). E invece la stampa maschile spesso la attaccava dandole della vecchia hippie o addirittura della «Courtney Love mummificata», dimostrando che ancora una volta a un’artista di 70 anni non viene riconosciuto il fuoco dell’innovazione, la spinta interiore che porta a creare qualcosa di peculiare, personale e per questo eterno, anche e soprattutto azzardando e osando.

Contro le mode va Vagabond Ways del 1999, di cui Give My love to London (2014) è una specie di versione riveduta e corretta, stavolta con la produzione raffinatissima di Daniel Lanois e gli inediti di Roger Waters che tira fuori Incarceration of a Flower Child, un brano scritto nel 1968 sulla tragedia barrettiana (ma che nel tema è chiaramente aderente al periodo da tso della Faithfull), di Elton John che scrive For Wanting You appositamente per lei, che già da sola fa un grande lavoro di scrittura per un album che è da considerare di per sé una ballad “stuporosa” nella sua interezza.

Sì, perché nel frattempo, dal 1996 al 1998 circa, Marianne Faithfull ha una deriva neo cabaret, una fumosa riappropriazione dello stile di Kurt Weill e delle sue stesse opere, come The Seven Deadly Sins e 20th Century Blues, il cui prodromo è il clamoroso A Secret Life del 1995 scritto a quattro mani con Angelo Badalamenti, il braccio destro musicale di David Lynch, un disco incredibilmente elegiaco e musicalmente isolazionista, caratterizzato dalla fumosa e glaciale mano classica del maestro e dai testi su torbidi legami sentimentali che vanno poeticamente in pezzi (si scomodano Dante nel prologo e Shakespeare nel finale). Il disco lancia la Faithfull come una specie di Marlene Dietrich del futuro, ma prevedibilmente divide la critica e viene rifiutato dal mercato (sarà un flop clamoroso).

Nel 1990. Foto: Island/Universal

Non è la prima volta. La battaglia contro l’industria musicale era già partita nel 1987 con Strange Weather, che vede il ritorno sulle scene di Faithfull dopo essersi ripulita dall’eroina. Simbolicamente, qui si libera anche di una antica sé stessa: non ci sono brani scritti da lei, ma alcune cover e soprattutto degli inediti di Tom Waits e Kathleen Brennan, con l’apporto di Bill Frisell (che applica le sue ipnotiche chitarre a tutto l’album, coadiuvato dal grande Robert Quine). Non c’è spazio per le tendenze, ma anzi si indugia su un dark cabaret, una specie di blues dilatato e notturno, come una Waits al femminile.

È una svolta stilistica rispetto al trittico new wave A Child’s Adventure (1983), Dangerous Acquaintances (1981) e Broken English (1979), sparso tra un mood stile Grace Jones bruciata dai superalcolici, synth ballads proto hypnagogiche e attitudine post punk, quando regnavano confusione, abuso, dipendenza e follia. Il miglior periodo è forse questo, paradossalmente proprio quando lei fatica a scrollarsi di dosso il peggio (Broken English è chiaramente il disco per eccellenza per capire la complessità della vita di Marianne). Ma forse il suo album più importante è datato 1976, Dreamin’ My Dreams. Nove anni dopo Love in a Mist tornava a cantare mettendo la pietra tombale sui dischi anni ’60, con le corde vocali oramai deragliate da anni di fumo, alcol e via dicendo.

Nel 1965. Foto: David Wedgbury/Decca/Universal

Dreamin’ My Dreams è l’unico disco country inciso da Marianne, mentre al contrario nella sua vita c’è ben poco di country. In questo periodo infatti vive in un appartamento squattato senza luce e acqua insieme a Brierly dei Vibrators. Ma Dreamin’ my Dreams è un campo d’azione nel quale sperimentare quel timbro vocale che poi la caratterizzerà e che renderà immortali anche le sue performance sul palco (clamorosi anche i dischi dal vivo Blazing Away del 1990 e No Exit del 2016, a tutti gli effetti picchi della sua discografia).

Insomma i conti con gli anni in cui era considerata «un angelo dalle grandi tette» (come disse Andrew Loog Oldham, il manager degli Stones) Marianne li ha sempre fatti, pagando un prezzo salato: evidentemente la stampa e l’opinione pubblica ancora no. Diciamolo una volta per tutte: Faithfull non era la musa di Jagger, non era la fidanzata degli Stones, non era l’icona della Swinging London, non era neanche la strega tossicomane e non era la vittima sacrificale del rock, non era una semplice cantante. Era una donna libera, una artista che ci lascia un testamento nei suoi dischi sfaccettati e nelle sue ultime parole: «Se potete, concentratevi sul presente. È quel che ho fatto io».

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