Se fosse un poliziesco, s’intitolerebbe Il misterioso caso degli album che s’accorciano. D’accordo, Beyoncé e Taylor Swift hanno pubblicato nelle scorse settimane dischi talmente lunghi da dare l’impressione d’averci messo dentro tutto quel che avevano registrato. Cowboy Carter contiene 27 pezzi, la versione completa di The Tortured Poets Department addirittura 31. E però s’intravede la tendenza opposta. Per certi artisti pop contemporanei e certamente per alcuni veterani, la giusta durata di un disco è un’oretta, anche meno.
Radical Optimism di Dua Lipa contiene 11 canzoni ed è solo l’ultimo di una serie di album non troppo lunghi, da Guts di Olivia Rodrigo (12 pezzi) a Evolution di Sheryl Crow (10) a Rustin’ in the Rain di Tyler Childers (7) al debutto di 4batz U Made Me St4r (11). Venerdì uscirà il nuovo di Billie Eilish Hit Me Hard and Soft e conterrà 10 canzoni, il prossimo degli Avett Brothers nove. Puoi ascoltarne tre di fila nel tempo che ci metti a sentire tutto The Tortured Poets Department: The Anthology.
Era questa del resto la durata degli album negli anni ’60, ’70 e ’80 a causa dei limiti posti dal vinile. Ancora oggi, i discografici citano Thriller di Michael Jackson e What’s Going On di Marvin Gaye, album da nove pezzi ciascuno, come dischi perfetti che non abusano della pazienza di chi li ascolta.
I limiti di durata sono cambiati radicalmente con l’arrivo del CD che permetteva di pubblicare quasi 80 minuti di musica, ovvero il doppio della durata media di un vinile. La cosa ha incoraggiato gli artisti a mettere nei dischi qualunque pezzo volessero, o quasi. Nel caso fossero pure autori o co-autori delle canzoni, potevano contare su un ulteriore guadagno sul fronte del publishing, il che non ha fatto che incoraggiare la prolissità. Nell’era dello streaming, poi, più canzoni si possono ascoltare in streaming, migliore è il posizionamento in classifica e più alti sono i ricavi.
Ma allora, com’è che oggi ci si imbatte in dischi più corti? La cosa potrebbe avere a che fare col revival del vinile, che può contenere al massimo cinque, sei canzoni per lato. Secondo Joe Kentish, capo della Warner inglese che per anni è stato l’A&R di Dua Lipa, alla popstar sono sempre piaciuti i dischi compatti, dal debutto (12 canzoni) a Radical Optimism per il quale «voleva solo canzoni in grado di comporre un gran disco».
E poi c’è la lotta per catturare l’attenzione degli ascoltatori. La musica deve vedersela con altre forme di intrattenimento. «L’esperienza d’ascolto di un disco è cambiata», dice un alto dirigente di una major. «In passato mettevi su The Dark Side of the Moon, spegnevi le luci e lo ascoltavi. Era un’esperienza totalizzante. Oggi gli album sono solo una delle tante cose a disposizione della gente».
Secondo Kentish gli album più corti soddisfano l’esigenza di alcuni ascoltatori di passare velocemente in streaming da un artista o da un album all’altro. «Più ascolti musica in streaming, meno possibilità ci sono di sentire un disco dall’inizio alla fine. In un contesto del genere, la gente vuole album brevi. Si cerca di mantenere viva l’attenzione».
Un altro fattore importante è la facilità con cui oggi è possibile registrare e pubblicare musica. Lipa e Rodrigo, per fare due esempi, hanno pubblicato riedizioni ampliate di Future Nostalgia e Guts. Si registra un sacco di musica «e anche se non si aggiunge al titolo la scritta “capitolo 1”, è di quello che in sostanza stiamo parlando», spiega un discografico. «L’album non è più il pasto intero, è un piatto a cui spesso ne segue un altro. Magari è un modo di ragionare cinico, ma la realtà è questa qua».
È una mossa rischiosa. Dopo la pubblicazione di Guts, alcuni fan abituati ad album lunghi si sono lamentati in rete della presunta pochezza del disco di Rodrigo. «È proprio vero che oggi chiamano album qualunque cosa», ha scritto uno, «praticamente un EP», ha commentato un altro.
Forse devono iniziare ad adattarsi a questo standard. «C’è nell’aria il desiderio di mantenere una certa coerenza nell’arco di un disco e di pubblicare solo i pezzi migliori», dice Kentish. «Come si usa dire in questi casi, all killer, no filler».
Da Rolling Stone US.