Appunti per il recupero del repertorio migliore di Rod Stewart, che oggi compie 80 anni | Rolling Stone Italia
Lo riascoltiamo?

Appunti per il recupero del repertorio migliore di Rod Stewart, che oggi compie 80 anni

Non è solo il crooner piacione che interpreta i vecchi classici o il cocainomane che assume la roba via supposta per non rovinare la voce. È stato un grande rocker e un autore di primo livello. Un promemoria per gli under-qualcosa che lo conoscono poco

Appunti per il recupero del repertorio migliore di Rod Stewart, che oggi compie 80 anni

Rod Stewart

Foto: Fin Costello/Redferns/Getty Images

Faccia da piacione (e da Stones), capelli a istrice, vestito da Frank Sinatra e concerti a Las Vegas con biglietti da 1000 dollari. È più o meno questa l’immagine di Rod Stewart degli ultimi vent’anni, quella che i più giovani (se esistono giovani che ne conoscono l’esistenza) sono abituati a vedere. Un finale di carriera da crooner, che ha riletto in cinque album i grandi classici americani e in uno quelli del soul, che da tempo non vede più una hit in testa alle classifiche e qualche volta finisce in anticipo i concerti per prendere un aereo e andare a veder giocare l’amato Celtic. Eppure Rod Stewart è stato molto di più. Anzi, è stato talmente tante cose che forse nemmeno lui se le ricorda tutte, magari cancellate dallo scotch e dalla cocaina che, come ha raccontato nella sua splendida autobiografia, a un certo punto ha iniziato a mettersi su per il culo per non rovinarsi le corde vocali.

Quando si parla dei grandissimi, spesso il nome di Rod non compare. Così come è difficile sentirlo nominare tra le fonti d’ispirazione delle nuove leve del rock. Questo per via dell’eterogeneità della sua carriera. Anche perché per tutti gli anni ’80 Stewart è stato visto dai più come il gigolò da dancefloor di Da Ya Think I’m Sexy? nonostante nello stesso periodo altre rockstar come Rolling Stones e Kiss strizzassero l’occhio alla disco con pezzi come Miss You e I Was Made For Loving You ampliando la loro fanbase. E il fatto che a quella superhit siano seguiti album non proprio imprescindibili, esattamente come quelli di quasi tutti i grandi del decennio precedente, non ha certo aiutato a ricordare a tutti quale razza di autore fosse stato invece per tutto l’arco dei ’70.

Sì perché Rod non era solo un animale da palcoscenico, con una voce così iconica da essere riconoscibile immediatamente come quella di pochissimi o un interprete di ballate altrui come The First Cut Is the Deepest o I Don’t Want to Talk About It: quello in qualche modo è ancora possibile comprenderlo anche oggi che compie 80 anni. Rod era soprattutto un autore di primissimo livello, che non ha parlato solo di Hot Legs e perdita della verginità, magari ad opera sua, va da sé. Gli album che ha composto insieme a Ron Wood ai tempi della Jeff Beck Band prima e nei Faces poi lo hanno fatto esplodere nella Swinging London come uno dei frontman più importanti della sua generazione, al pari di gente come Robert Plant e Roger Daltrey. Ma a differenza di loro due, a cui lo accomunava l’aspetto fisico attraente e sfacciatamente macho, Rod sapeva parlare anche una lingua diversa, che lo avvicinava ad artisti come Elton John o Cat Stevens.

Faces - Stay With Me (Live on Sounds For Saturday, BBC, 4/1/72)

Alla fine degli anni ’70, dopo l’esplosione mondiale come artista solista, era per Johnny Rotten un vecchio scoreggione come gli altri che i punk volevano spazzare via dalla faccia della terra: «I Sex Pistols, tuttavia, si sentivano anche traditi», scrive Stewart nell’autobiografia. «A quanto pareva, erano stati grandi fan dei Faces. Alle prove suonavano sempre Three Button Hand Me Down, una canzone scritta dal vostro vecchio scoreggione con Ian McLagan. I Pistols apprezzavano il rapporto della band con il pubblico, l’atmosfera di baldoria dei nostri concerti, a cui tutti sembravano partecipare, non come succedeva, per esempio, con gli Stones, che fin dagli esordi avevano tenuto il pubblico a distanza. Potevi amare gli Stones, ma non ti sembrava mai di conoscerli. Insomma, ai Pistols non era andata giù la fine che avevano fatto i Faces e il fatto che io avessi continuato da solo diventando una star. Avevo lo stesso problema con John Peel, il dj. Mi aveva detto di essere rimasto deluso quando ero diventato famoso. Sentiva di avermi perso – le nostre strade avevano smesso di incrociarsi dopo che mi ero trasferito a Los Angeles – e che avevo perso anche me stesso».

Ma quando aveva iniziato a perdersi veramente? Più che dal punto di vista artistico, il trasferimento a L.A. ne aveva amplificato i tratti edonistici e da bohémien che aveva già mostrato in Inghilterra (e che lo avevano fatto diventare grande amico di Freddie Mercury ed Elton John). Per lo meno inizialmente, però, quello stile di vita non aveva avuto ripercussioni sui suoi album. Dopo il clamoroso successo di Every Picture Tells a Story del 1971, Rod si è ripresentato in solitaria per la prima volta da yankee con Atlantic Crossing, un disco diverso dai precedenti, che affondavano ancora pesantemente le radici nel folk e nel rock-blues, e prodotto perfettamente per sbancare in America con una formula, quella di mettere insieme pezzi scritti di proprio pugno e intense ballate altrui, che sarebbe diventata il suo marchio di fabbrica da lì in avanti.

Rod Stewart - Maggie May (Official Music Video)

Diventato ormai una rockstar mondiale, invece di riposare sugli allori Rod decide di trasformare il suo entusiasmo in nuova musica e, meno di un anno dopo, nel 1976 si riaffaccia al mercato con A Night On the Town. L’album fa storcere il naso ai benpensanti per il testo di Tonight’s the Night, che racconta la prima volta di una giovane senza lesinare particolari lascivi e fa propria The First Cut Is the Deepest di Cat Stevens. Probabilmente è in quel momento che Johnny Rotten inizia a pensare a lui come a una vecchia flatulenza. Per tutti diventa l’emblema dello sciupafemmine su cui lui stesso gioca moltissimo. Un recente commento di una donna inglese su YouTube sotto il video di Tonight’s the Night è emblematico: «Ogni anno mando una lettera per la festa del papà a Rod, non si sa mai…».

Quello di cui forse il leader dei Sex Pistols si era dimenticato e di cui forse Kurt Cobain si era accorto, era la presenza in quel disco di The Killing of Georgie, forse il primo brano di una star di quel livello a parlare di una persona che viene uccisa in quanto omosessuale. Un rischio senza precedenti, qualcosa di forse più grande di quanto fatto pochi anni prima da David Bowie, che aveva dichiarato provocatoriamente di essere gay. Fregandosene del possibile suicidio commerciale, Stewart scrive di proprio pugno la storia di Georgie, amico dei tempi dei Faces ucciso da una gang del New Jersey e lo fa con una sensibilità tale da spazzare via ogni ombra machista che poteva aver caratterizzato alcuni suoi testi e il rapporto con l’altro sesso. L’abbigliamento utilizzato nel video è più vicino a Freddie Mercury che ai frontmen di Led Zeppelin e Who.

«Su quel disco c’è The Killing of Georgie (Part I and II), forse la canzone più ambiziosa che abbia mai scritto in termini di struttura narrativa, e senza dubbio una delle più lunghe. Le parole mi vennero in mente nel cuore della notte, per giorni di fila. Ogni notte dovevo alzarmi a scriverle. Iniziai a chiedermi se quello che stavo scrivendo fosse un romanzo, più che una canzone. Alla fine, però, sembrò giungere a una conclusione, e non era troppo lunga per non essere un singolo. Alla Warner Bros. c’erano persone tanto medievali da temere che il messaggio pro gay mi avrebbe alienato il seguito eterosessuale. Al diavolo, pensai. È una delle canzoni di cui vado più fiero. (E fu un grande successo, quindi non mi alienai proprio un bel niente)».

Rod Stewart - The Killing Of Georgie (Part I & II) (Official Video)

Fregandosene della critica, Rod è andato avanti per la propria strada, senza guardarsi indietro e senza mai provare a recuperare quello che era stato un tempo, con una coerenza comunque invidiabile. Per comprendere però la complessità della sua storia non si può prescindere dal periodo inglese di Stewart. Più volte ascoltando le registrazioni alla BBC contenute in Faces at the BBC – Complete BBC Concert & Session Recordings 1970-1973 si sente qualcuno che grida che sono la più grande rock‘n’roll band inglese. È pure troppo, considerando i colleghi del periodo, ma non è nemmeno una bestemmia. Molto del revival rock dei decenni successivi, penso ai Black Crowes in particolare, arriva anche da lì. È vero, a parte Stay With Me le hit arriveranno dopo e i riconoscimenti per la band saranno soprattutto postumi, ma l’onda lunga di quel periodo ha dato una scossa anche agli Stones, che un po’ se la fecero sotto vedendo l’energia dei loro show e che poi iniziarono a servirsi della vitalità stradaiola di Ronnie Wood. Imprescindibili sono anche i primi due dischi del Jeff Beck Group Truth e Beck-Ola, dove la coppia Stewart-Wood pone le basi del rock che avrebbe voluto sviluppare senza l’ingombrante presenza dell’ex chitarrista degli Yardbirds.

Del Rod solista si può dire che in qualche modo l’urgenza creativa finisca realmente dopo A Night on the Town del 1976, ma fino a quel momento non c’è album che non valga la pena di ascoltare. E onestamente, anche dopo, nonostante un evidente sterzata verso sonorità commerciali, qualcosa di buono c’è, soprattutto nel best seller Vagabond Heart del 1991, di certo iperprodotto ma con un amore infinito per il soul e l’r&b (non a caso sono presenti sia Tina Turner che i Temptations) e in All For Love in compagnia di Sting e Bryan Adams.

Quando, per rifarsi per rifarsi una verginità e magari far capire ai tipi di Seattle di meritare la loro stima, molti eroi degli anni ’70 accettarono l’invito di MTV per registrare un Unplugged, Rod avrebbe potuto includere nella set list The Killing of Georgie e più brani dei Faces, come a dire: guardate che non sono proprio l’ultimo degli stronzi. Non l’ha fatto. Peccato, perché avrebbe potuto mostrare una parte dimenticata della sua discografia e, magari, tornare  artista di riferimento come ai tempi della golden age del rock‘n’roll. Preferì invece fare una telefonata a Ron Wood e rimettere insieme la coppia da cui tutto era nato. Perché, in fin dei conti, non gli è mai fregato nulla di essere un punto di riferimento per qualcuno.

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