Insomma, i soldi possono comprare tutto? In primis le nostre passioni e le nostre opinioni? Volendo, sì. Ma è anche vero che le cose possono essere un filo più complesse (e interessanti), se le vai indagare un minimo da vicino. Proprio nei giorni dei Mondiali in Qatar – inutile stare a dire quante polemiche ci siano state prima, dopo e durante, sul giro di denaro sottobanco per influenzare opinione pubblica e politica: mazzette europee comprese – a non molta distanza, entrando però nel territorio dell’Arabia Saudita a mezz’ora di macchina dalla capitale Riad, si è svolto Soundstorm. Molti diranno: embè, e che è? Mai sentito! Beh, basta rispondere coi numeri: in tre giorni, 600 mila presenze. Qualcosa di discretamente gigante, per un festival musicale. Ma attenzione, non è un festival musicale come tanti: è anche uno di quelli che più ha generato polemiche tra addetti ai lavori, polemiche in minima parte sovrapponibili a quelle che ci sono state per i mondiali calcistisi qatarioti. Ed è qui che le cose si fanno decisamente interessanti.
Riavvolgiamo il nastro. Soundstorm, di suo, anche se sta mutando pelle e si sta sempre più aprendo a hip hop e pop d’autore, è nato come evento in primis house e techno o comunque danzettaro. Club culture, insomma, quella roba lì. Ora: è abbastanza nell’abc delle cose, per chi è un minimo addentro, sapere che il clubbing è nato in primis nelle comunità un po’ reiette, in primis freaks vari e omosessuali. Poi chiaro, in Italia c’è stato uno strano cortocircuito col mondo delle discoteche, che è sempre stato molto mainstream e commerciale (e a lungo è stato visto proprio come “di destra”); ma per chi segue filologicamente l’approccio anglosassone alla faccenda, il clubbing nasce come esperienza alternativa e controculturale.
Esperienza che poi nel frattempo è esplosa commercialmente, diventando quasi solo un gigantesco finto underground: ovvero underground a parole, perché fa chic e dà ancora un profilo, ma sempre più maledettamente da establishment nelle modalità e nei numeri, insomma un cinico pop mascherato da altro-da-sé. Però ecco diciamo che c’è ancora qualche scheggia di verginità e integrità da difendere, tra chi è affezionato a house e techno così come le abbiamo viste esplodere tra la fine degli anni ’80 e nei primi ’90 e che vi sguazza dentro. Che sono poi le stesse persone che hanno guardato con molto astio silenzioso o proprio aperta ostilità il momento in cui l’industria dello spettacolo americana ha scoperto la suddetta cassa in quattro, facendo nascere – sfruttando in primis producer europei come Guetta o Swedish House Mafia – l’EDM: aka elettronica dance commerciale al massimo grado, cantabile ed emozionabile, merce pronto-uso un drop dietro l’altro, per una scintillante e euforica instant satisfaction (agli antipodi del vero clubbing: che chiama invece a un percorso lungo ore ed ore nell’ascoltare, ballarsi, godersi a modo un dj set, altro che instant satisfaction).
Dicevamo: Soundstorm. Un evento che è andato subito da 0 a 100. Alla faccia del «bisogna crescere passo passo, guadagnarsi credibilità anno dopo anno»: seh, figuriamoci. Prima edizione, anno 2019: tre giorni, 45 mila presenze dichiarate. Anno 2020, pausa forzata pandemica. Seconda edizione, quella in cui sono divampate le polemiche (ora ci arriviamo), anno 2021, quindi l’anno scorso: sempre tre giorni ma presenza dichiarate che toccano le 750 mila. Numeri quasi irreali ma guardando lo sfarzo delle line-up, beh, diventano un po’ più reali: praticamente i sette ottavi della scena house, techno ed EDM più commercialmente potenti in cartellone.
In tal senso l’edizione numero tre, anno 2021, è proprio impressionante: così impressionante da far detonare le polemiche, da parte dei più duri ed intransigenti (tipo Dave Clarke, leggenda inglese della techno, che se rileggete la nostra intervista avete capito un po’ che tipo è). Perché passi che quei commercialoni che si sono venduti l’anima dell’EDM – quelli che vengono etichettati come aedi della cosiddetta business techno – vadano a una cosa del genere, ma quando inizi a vederci anche un Jeff Mills ovvero il mito vivente della techno detroitiana più pura e intellettualmente intransigente allora è facile alzare più di un sopracciglio. E puntare il dito. Dicendo semplicemente: maledetti voi, per un mucchio di soldi, perché di sicuro per andare lì vi hanno strapagati, vi state vendendo l’anima. State cioè partecipando a una colossale operazione di ripulitura d’immagine di uno Stato, l’Arabia Saudita, che non solo rende ancora illegale il clubbing (tecnicamente i club non hanno diritto di esistere, al massimo si balla con l’escamotage della festa privata), ma addirittura di illegale considera ancora l’omosessualità, alias ciò che sta alla base di una delle comunità che il clubbing lo ha proprio creato. Siete complici. Siete dei maledetti. Siete dei venduti. Il discorso, ecco, fila un po’ così.
A queste accuse come è stato risposto? Mills stesso ha avuto un accurato e civilissimo confronto pubblico con Dave Clarke, su Facebook. E lui, come molti, è andato a parare su un’argomentazione nitida e chiara: le cose bisogna vederle, nei posti bisogna andarci. E se comunque vai in una comunità fatta in un certo modo, nel momento in cui vieni invitato e ti viene garantito di fare quello che fai di solito, tu col tuo esempio, la tua arte, il tuo essere te stesso e la storia che rappresenti puoi essere il veicolo di un progressivo cambio di paradigma. Se porti il clubbing dove il clubbing non c’è (se non recluso in feste private), e se lo porti in un evento organizzato alla grandissima capace di attirare centinaia di migliaia di persone, l’effetto finale e sul lungo periodo rischia di essere molto interessante e positivo, e comunque più rilevante dei soldi che hai o non hai preso per suonare.
La business techno sta diventando sempre più ubiqua, sempre più potente, sempre più alla ricerca di nuovi territori in cui potersi dispiegare liberamente: dj che grazie a un uso accorto e cinico dei social diventano molto famosi, che si muovono per cachet molto costosi, che accettano di suonare a meno eventualmente solo per promoter molto potenti e spregiudicati, che a loro volta sono amici di tizi molto facoltosi, che organizzano party per gente molto alla moda o molto sgamata. La dinamica è questa. Ed è così che ora i grandi nomi sbarcano a Dubai, in Vietnam, in Costa Rica, a Tulum, in Egitto, eccetera eccetera: tutte destinazioni che un tempo sarebbero sembrate semplicemente impossibili per la club culture a base di techno e house, per vari motivi. Soundstorm è la realizzazione all’ennesima potenza di tutta questa faccenda?
Il sospetto ti può venire, ovvio. Ma quando arrivi lì, quando vedi e tocchi con mano, capisci che no. Capisci che questa è un’altra storia. È vero che ci vuole la benedizione politica ed economica delle famiglie regnanti per costruire un evento che è uno sforzo produttivo semplicemente mostruoso: a partire da un Main Stage con un’area calpestabile grande quanto mezzo campo di calcio (letteralmente, non è una metafora: è infatti nel Guinness dei primati) e complessivamente largo oltre 200 metri (ci metti tre minuti e mezzo, cronometrati, per andare da un lato all’altro), poi quasi una decina di palchi totali, luci e artifizi scenici all’avanguardia in ogni singola area, cura incredibile in ogni particolare (perfino le transenne sono di ultimissima generazione), soluzioni quasi assurde (ma in realtà strategiche) tipo una passerella sopraelevata lunga chilometri e chilometri a cui puoi accedere solo col biglietto a costo maggiorato, e che ti permette di arrivare a ciascuno dei palchi – date le dimensioni del festival, sono spesso molto distanti fra di loro – senza mai toccare terra e senza mai mescolarti col pubblico normale. Una cosa da mezza fantascienza. Così come da fantascienza – ma un po’ vintage e distopica, alla Mad Max – è l’allestimento per l’area più propriamente techno e house (chiamata, guarda un po’, Underground), dove centinaia e centinaia di container ferroviari/marittimi inutilizzati (ci sono ancora le sigle sopra: MSC, Maersk…) vengono disposti a creare arene, capannoni, mini-stadi: l’effetto, ve lo garantiamo, è strepitoso, una delle cose più suggestive mai viste in vita nostra.
Insomma: c’è il delirio del soldi, del budget illimitato, però è usato non per lo sfarzo fine a se stesso e per mera ostentazione di potenza ma anche e soprattutto per ricreare un’atmosfera che lasci a bocca aperta e che sia respirabile da tutti, non solo dai privilegiati. Sì, ok, la passerella di cui vi dicevamo che è accessibile solo coi biglietti costosi, gli sfarzosissimi box per vip di fronte al Main Stage che sono dei veri e propri appartamenti, ma il festival lo si vive comunque benissimo pure col biglietto normale e coi percorsi normali, quelli accessibili a tutti. La produzione esecutiva dell’evento è comunque affidata ai migliori professionisti mondiali del settore, capitanati da Micheal Jobson e – per il design complessivo delle strutture – Alex Reardon, non a qualche raccomandato paraculato. La qualità di ogni singolo dettaglio lascia basiti, a partire dagli oltre 100 punti ristoro, tutti rigorosamente cashless (ciao Italia!), che fanno sì che anche con 200 mila persone presenti non si creino mai code particolari per mangiare e bere, così come sempre con quel numero di persone presenti sia sempre e ripetiamo sempre disponibile e funzionante un wi-fi gratuito per tutti. Figuriamoci. Da noi non reggerebbe manco il 4G.
La gente, c’è. La gente risponde. La gente si diverte. Ed è gente per lo più normale, figli della piccola o media borghesia. Non è solo un giochetto sfarzoso per happy few e soliti noti & raccomandati; è veramente una festa popolare, è una festa in cui ci sono ogni sera un mare di persone (giusto il sabato, nei tre giorni del festival, è stato un po’ più scarico: quest’anno comunque dichiarate 600 mila presenze complessive) mostra una grande sete di divertirsi, di ascoltare la musica che ascoltiamo noi (da Guetta a Bruno Mars, da Solomun a Benny Benassi, da Afrojack ai 2 Many DJs, da Post Malone ad Adam Beyer), e di farlo tra l’altro con un entusiasmo che spesso ormai noi manco ci ricordiamo più. Perché tra l’altro è un entusiasmo assolutamente scevro da droghe ed alcol, rigidamente vietati per legge, e in effetti non abbiamo visto nemmeno assunzioni sottobanco (in tre giorni, giusto una volta s’è sentita una ventata furtiva di hashish), eppure lo stesso l’euforia non è mai mancata, anzi, c’erano più gioia e saltellamenti lì che in molti festival ed eventi dance internazionali di casa nostra, anzi, emisfero nostro, posti dove ormai sempre più ossessionati dall’esserci e dall’apparire piuttosto che dal divertirsi in sé.
Non solo. In una nazione dove solo dal 2018 alle donne è stato permesso di prendersi la patente e guidare, non possiamo che notare che la presenza femminile fra il pubblico non sarà magari stata il 50% (ma questo spesso manco in Occidente), sarà stata il 10/15% con una stima spannometrica ad occhio, ok, ma il 10/15% di 600 mila resta una cifra notevole e soprattutto la stragrande maggioranza delle ragazze era senza velo, segno di un progressivo rilassamento dei costumi e delle restrizioni fra le giovani generazioni. Generazioni che hanno evidentemente una reale passione e interesse per i fenomeni globali di consumo culturale, senza per questo voler per forza rinnegare la cultura non occidentale (quando Afrojack e Salvatore Ganacci, reclutati entrambi dalla branch discografica del festival, hanno invitato sul palco degli eroi musicali mediorientali, tipo l’improbabile Mohamed Ramadan o il gigidalessico all’orientale Ahmed Saad, le ovazioni non sono mancate).
Insomma: se temevamo e un po’ ci aspettavamo il classico sfarzo-per-lo-sfarzo da petrodollari, con un festival sì da meraviglia e bocca aperta ma fatto unicamente per ostentazione e dimostrazione di potenza (e rivolto unicamente a caste di privilegiati, arabi ed occidentali che fossero), abbiamo avuto ben altro. Abbiamo avuto una esperienza realmente viva, popolare, partecipata, altamente professionalizzata e moderna, abbiamo avuto un festival che alla fine risulta molto più autentico e stiloso del Tomorrowland e molto meno sotto ricatto di Instagram di Coachella. Abbiamo avuto un festival che consiglieremmo a chiunque: sì, vale la pena spendere dei soldi per andare fino in Arabia Saudita a vedere ‘sto Soundstorm.
E sì: lo consiglieremmo pure ai nostri amici più critici ed impegnati politicamente. Lo consiglieremmo anche a Dave Clarke e a chi la vede come lui, chi ritiene insomma – anche legittimamente e sensatamente – che tutto ciò che arriva da regimi politici illiberali, corrotti e/o teocratici vada boicottato: sarà un processo indotto dall’alto e sarà magari pure posticcio (solo il tempo lo dirà), ma che in Arabia Saudita le cose come costumi sociali stiano cambiando con una velocità impressionante allentando i cordoni delle restrizioni & punizioni teocratiche più conservatrici te lo confermano tutte le persone di lì con cui parli, tutte!, nessuna esclusa. E in questo contesto, le famiglie regnanti in Arabia Saudita hanno deciso che la musica e un festival musicale come Soundstorm sono un pezzo importante di questa dinamica riformista (che in realtà è vastissima, date un occhio su Google digitando “2030 Vision”: un programma di innovazioni tecnologiche e urbanistiche a scadenza 2030 semplicemente gigantesco, praticamente un incrocio tra Svizzera e grandeur americana dei bei tempi, con però i piedi ben piantati nella cultura e tradizione araba). Decisione che genera il dare ad un’entità come Mdlbeast, ovvero coloro che organizzano Soundstorm, mezzi finanziari tonitruanti e libertà d’azione. «Things are changing, my friend» è il mantra che ti ripetono tassisti, camerieri, commessi, semplici passanti; e lo ripetono così spesso e con così tanta convinzione che sì, inizi a pensare sia vero. O se per caso non è vero, c’è in atto un grande sforzo – politico ed economico – per farti credere che lo sia.
Di sicuro toccare con mano l’attività di Mdlbeast anche al di là del risultato finale Soundstorm è molto, molto significativo. Nei giorni precedenti al festival hanno infatti deciso di dare vita ad XP Music Futures, una tre giorni di incontri e conferenze per addetti al settore dell’industria musicale più avanzata (il tutto è co-gestito assieme a una agenzia berlinese che ha i migliori addentellati nella parte più progressista ed “elettronica” del settore), tre giorni dove tra le altre cose abbiamo potuto toccare con mano il lavoro fatto “dal basso” per diffondere la cultura musicale più contemporanea: con investimenti a fondo perduto, vengono infatti organizzati party locali, workshop, seminari; e lo stesso XP è una cosa che finanziariamente per ora non sta in piedi ma viene fatta proprio per creare un network reale e paritario con le best practices occidentali più di qualità, nel campo della creazione ed organizzazione di eventi musicali dance e non solo.
Chiaro, il terreno è ancora semi-vergine e difficoltoso, nei vari dj set e live set serali abbiamo visto lo svedese Sebastian Mullaert suonare roba clamorosamente meravigliosa e sofisticata di fronte a dieci persone scarse mentre il palco con un miscuglio house/hip hop un po’ tamarro raccoglieva cento volte tanto a livello di presenze. Però è anche vero che c’è stato un pubblico attento e partecipe quando si è discusso dei destini dell’informazione giornalistica araba e non nel campo musicale, o quando hanno parlato pezzi grossi come Amy Thomson (in CV il management per gente come Seal e Swedish House Mafia o strette collaborazioni con Kanye West) o Georgia Taglietti (per oltre vent’anni la Head of Communication del Sónar Festival), e non solo quando è venuto a raccontarsi David Guetta (un’ora a parlare, senza filtri, contrariamente a quello che avviene ora quando devi contattarlo, attorno a lui c’è troppo spesso una campana di vetro) o Matthew Knowles, il padre/manager/scopritore di Beyoncé (detto con affetto: un simpatico cialtrone, un intenso venditore di pentole).
Cosa molto interessante, l’XP è stato attentissimo a mantenere una sostanziale parità tra uomini e donne come presenze nei vari panel: un messaggio chiarissimo sulla necessità di andare verso una gender equality nell’industria dell’intrattenimento. Te lo aspetteresti questo da una nazione come l’Arabia Saudita, che per molti osservatori ancora fa strage dei diritti delle donne? Eppure, accade. Almeno ad XP Music Futures accade. E lo fa in maniera molto naturale, non forzata. Ci sentiamo infatti di poter dire: non è pinkwashing, o ameno non traspare in nessun modo come tale. Anche perché il team di Mdlbeast è in maggioranza femminile, oltre ad essere composto tutto da persone particolarmente alla mano, ben informate, sveglie nei modi e nei pensieri, parlanti pure un ottimo inglese (provate a vedere quanti parlano un ottimo inglese nell’industria italiana degli eventi live e legati al clubbing).
Solo il tempo stabilirà se questo cambiamento radicale ed epocale sul territorio dell’Arabia Saudita avrà luogo per davvero o meno. E solo il tempo stabilirà se Soundstorm e in generale tutta l’attività di Mdlbeast sia una momentanea “libera uscita” graziosamente concessa & finanziata dall’alto, o il primo mattone di una profonda e appassionante evoluzione del consumo e dell’industria culturale arabi. Ma ad andare a verificare le cose sul campo come abbiamo fatto noi, l’impressione è più che positiva, più che incoraggiante; e forse davvero la propria presenza “da Occidente” – come pubblico, come professionista addetto ai lavori o come artista – contribuisce al cambiamento in modo concreto e tangibile, ha degli effetti positivi reali, non è insomma (solo) un appecoronarsi di fronte alla potenza della ricchezza saudita. Ah: nel dirlo, ve lo garantiamo, non ci è finito in tasca neppure un euro. Controllate pure gli estratti conto. Eva Kaili and Francesco Giorgi are not here.