C’è un momento preciso nella vita di Richard Benson capace di spiegarne appieno la deriva umana e artistica degli ultimi anni della sua esistenza: quello comunemente conosciuto come l’incidente del Tevere. L’episodio è avvolto da un tale mix di mistero, cazzate e mito da essere di difficile ricostruzione, ma dopo il quale Benson passò da musicista rispettato da chi ne aveva condiviso anche per poco il percorso a personaggio tragico e decadente, noto soprattutto come bersaglio mobile di chi andava a vederlo dal vivo per lanciargli qualsiasi cosa gli passasse per le mani. Una deriva umana culminata con un video straziante in cui Richard, ormai senza denti e senza soldi, chiedeva pubblicamente aiuto insieme alla moglie Ester.
È proprio da quel video, dalla voglia di aiutarlo, che ha inizio l’idea di Maurizio Scarcella di raccontarne la vita e le gesta in Benson – La vita è il nemico (a questo link l’elenco delle sale). Iniziato con la collaborazione di Benson e conclusosi mestamente qualche mese dopo la sua scomparsa, il documentario in qualche modo vede il suo punto centrale, oltre che il più toccante, proprio quando cerca di raccontare il misterioso incidente che funge da spartiacque della vita del musicista.
Nel 2000, probabilmente dopo aver ricevuto una diagnosi di artrosi che ne avrebbe condizionato per sempre l’utilizzo dell’amata chitarra, Richard tentò il suicidio gettandosi da ponte Sisto, ma fallendo clamorosamente bersaglio. La caduta sul cemento di uno dei piloni del ponte, invece di porre fine alla sua vita, la rese ancora più insopportabile, costringendolo per sempre all’uso delle stampelle e a passare dagli “assoli infernali” che popolavano i suoi video didattici a quel “bastone infernale” (con tanto di lama posticcia estraibile) sfoggiato con orgoglio in ogni occasione pubblica. Un giorno, davanti a una decina di cappuccini che gli garantivano la dose di zucchero necessaria ad arrivare a sera, Richard mi raccontò la sua versione dei fatti, quella che sarebbe diventata celebre anche tra chi lo seguiva assiduamente online: «Sono stato vittima di un’aggressione, volevano farmi fuori ma gli è andata male».
La parte del documentario in cui si fa riferimento all’accaduto è trattata con molta discrezione, tanto che anche i compagni di viaggio interpellati per l’occasione preferiscono parlarne solo per sommi capi. L’unica certezza è che da lì in avanti, per riuscire a vivere, Richard aumentò a parlare di sé in termini così paradossali da entrare nella leggenda. Se fino a lì Benson aveva sempre fatto della sfrontatezza ostentata uno dei propri marchi di fabbrica, da quel momento quella modalità diventò tutt’uno con la sua biografia, tanto da renderla una sorta di grande romanzo d’avventura in cui facevi fatica a distinguere verità e menzogna.
In questo senso, strepitosa è la testimonianza di Federico Zampaglione, che insieme al fratello Francesco nel 2015 aveva prodotto L’inferno dei vivi, l’album che aveva segnato il ritorno in studio di Benson dopo decenni di disgrazia: «Avevamo tantissime richieste di intervista, ma alla fine fummo costretti ad annullarle tutte perché Richard ci disse che doveva volare in America per lavorare al nuovo disco di Rihanna. Una cosa folle che ce lo fece amare ancora di più».
Proprio in quelle sparate sta un po’ la questione cui tutta l’ultima parte della sua vita girò intorno: Benson ci era o ci faceva? Una domanda cui anche le persone coinvolte nel lungometraggio fanno fatica a rispondere. Perché, quando morì, Richard aveva passato così tanto tempo a metà tra farsa e leggenda che le due cose ormai parevano indistinguibili. Quando ti raccontava che, dopo una serie di concerti noiosissimi di fronte al composto pubblico giapponese, era stato felice di tornare a Roma a farsi lanciare uova e farina, sapevi che ti stava raccontando una cazzata immane. Così come quando diceva di aver fatto più di 5000 concerti nel mondo o di essere stato la maggior fonte di ispirazione per Marilyn Manson o per i Dream Theater.
Allo stesso tempo sapevi che le raccontava per trovare la forza di andare avanti a farsi umiliare in quel modo senza perdere il briciolo di amor proprio che gli rimaneva. Nella stessa serata, poi, poteva dirti che stava per registrare un album col virtuoso della batteria John Macaluso e poco dopo postare le immagini di quelle session, spiazzandoti così tanto che iniziavi a chiederti se non fosse stato davvero il protagonista di una residency al Tokyo Dome. Col risultato di farti pensare per qualche secondo che magari anche tutto il resto fosse vero.
Per ovvi motivi, il lungometraggio vive per lo più di ricordi di gente dello spettacolo e amici, oltre che di video recuperabili in rete senza grossi sforzi. Tuttavia, sono molteplici gli aneddoti meno noti che aiutano a comprendere con meno superficialità un artista che probabilmente non sarebbe passato comunque alla storia per le sue doti, ma che aveva il dono raro di sintetizzare in poche parole, quasi degli aforismi, la difficoltà di vivere come pochi altri. La cosa più singolare di quei pensieri sparsi era che Richard non li teneva in serbo per comparsate televisive di una certa rilevanza o comunque per occasioni speciali. No, lui era capace di tirarli fuori così, tra un «ultimiiii» gridato in faccia a chi gli lanciava oggetti contundenti e una terribile versione di Another Brick in the Wall che chiudeva uno dei suoi tragici spettacoli.
Da uno di quelli, tra i più amari e allo stesso tempo più lucidi tra quelli fatti nel corso degli anni, prende proprio il titolo il lavoro di Scarcella, che riesce comunque a catturare solo fino a un certo punto l’essenza di un personaggio come Benson. Non tanto per colpe oggettive, ma semplicemente per le infinite possibilità di lettura di una vita troppo difficile da riassumere in un’ora e mezza senza cadere nella tentazione di trovare un senso a tutti i costi a qualcosa impossibile da catturare. Tra i momenti migliori restano le testimonianze di gente come Giuseppe Cruciani, che regolarmente lo ospitava alla Zanzara per sincerarsi delle sue condizioni di salute, Piero Chiambretti, che ebbe l’ardire di metterlo a tu per tu con uno stupefatto Giovanni Lindo Ferretti e, su tutti, l’immancabile Vittorio Sgarbi, che lo descrive al pari dei decadentisti dell’800. Tutto esagerato, tutto grottesco ma allo stesso tempo infinitamente poetico, come solo Richard sapeva essere.