New York, 1981. Al club The Underground suonano i Birthday Party, primo concerto negli Stati Uniti per la band australiana diventata londinese d’adozione. Un’occasione da non sprecare, giusto? Infatti. Mick Harvey, l’unico del gruppo che normalmente si teneva lontano da droghe e alcol, si prende una sbronza colossale – forse per lo stress – e sta a malapena in piedi, vomitando a ripetizione. Nick Cave, il cantante luciferino con i capelli a mazzo d’indivia, indossa un paio di pantaloni dorati di lamé che si strappano in un punto critico al primo piegamento, ovviamente senza mutande a fare da sipario. Il bassista corpulento e baffuto (Tracy Pew) guarda tutti con aria torva a metà tra il serial killer e la comparsa di un film di Fassbinder, mentre il chitarrista solista Rowland S. Howard è talmente diafano, nervoso, secco e dall’aria malaticcia che ti chiedi come faccia a camminare, non solo a suonare.
Quando Cave, con i suoi pantaloni strappati, abbranca la testa di una ragazza a bordo palco attirandola a sé e si becca da questa un giustificabilissimo cartone sui denti che lo manda ko, la security del locale stacca la spina cacciando a calci in culo la band dal palco. Durata totale del concerto: 10 minuti. Nella successiva data newyorkese, al Ritz, va meglio: riescono a suonare per ben 20, di minuti, prima che Nick inizi a sfondarsi la testa contro i piatti della batteria di Phill Calvert spargendo sangue dappertutto. Ladies and gentlemen, the Birthday Party.
In un periodo come quello attuale, in cui la musica dal vivo ha raggiunto uno stadio di clinica e ripetitiva asetticità nelle performance (e in cui a volte le performance neanche ci sono, vedi il caso delle listening experience alla Kanye West) fa uno strano e tutto sommato catartico effetto essere riportati a un tempo nel quale un concerto rock poteva davvero essere qualcosa di disturbante e di realmente pericoloso. Dove la ritualità non era quella imposta dagli obblighi social, ma scaturiva da qualcosa di più profondo e generalmente malsano. Nelle parole di Howard, rimasto incantato come ogni buon punk cresciuto nei primi anni 70 dai riot provocati dagli Stooges e dei Doors, «un concerto rock dovrebbe sempre avere un cordone di polizia tra chi suona e il pubblico, se no non ha senso».
Forse anche per questo Mutiny in Heaven: The Birthday Party, il documentario sulla band che verrà presentato in anteprima italiana il 3 marzo al Seeyousound di Torino, festival di cinema musicale giunto alla decima edizione, abbonda di riprese dal vivo. Quelle immagini sgranate e spesso fuori fuoco, riprese con videocamere primitive in locali che paiono sempre un’anticamera del purgatorio, sono anzi la ragion d’essere del film girato da Ian White e prodotto dal vecchio amico di Cave Wim Wenders. Non ci sarebbe bisogno d’altro e in effetti non c’è molto altro, a parte inserti di tavole disegnate in b/n (classico espediente documentaristico per sopperire alla mancanza di materiale visivo d’epoca) e alle voci narranti dei protagonisti che – a parte il leader che compare brevemente verso la fine nella sua recente versione baffuta e stempiata – appaiono in clip di interviste piuttosto vecchie. Se questo era inevitabile per quanto riguarda Howard, scomparso a causa di un tumore nel 2009, stupisce vedere un Mick Harvey con almeno vent’anni di meno.
La potenza e la violenza non mediate, psicotiche e autodistruttive dei Birthday Party emergono comunque in pieno, con la forza inquietante di qualcosa che si intuisce non essere ancora un cliché. Il documentario ne traccia la parabola partendo dalle origini – quando ancora si chiamavano Boys Next Door, nome che peraltro compariva anche nelle prime edizioni dell’album di esordio – nei sobborghi malfamati di Melbourne e nella enclave artistoide-bohémienne di St. Kilda. Intorno a loro c’è il punk appena esploso – celebre una foto del giovane Cave che osserva, prendendo mentalmente appunti, uno sfattissimo Chris Bailey a un concerto dei Saints – ma anche l’eroina che dal vicino sud-est asiatico ha invaso l’Australia, nonché la cappa di conformismo e di rigida repressione poliziesca che caratterizza la vita agli antipodi in quel periodo.
Anche per questo i “ragazzi della porta accanto” che nessuno vorrebbe come vicini decidono di espatriare a Londra, terra promessa dove tuttavia trovano ad attenderli una scena in decadenza, pagliacci new romantic e un freddo becco. Condividono con fidanzate e groupie una topaia da due stanze, mangiano quando capita e si tengono su a botte di speed. Dopo essersi girati i pollici per qualche mese, cominciano a entrare nelle grazie dei guru musicali locali, primo tra tutti John Peel. Questo grazie soprattutto a quei concerti caotici, infernali e sempre a un millimetro dal collasso che spaventano persino un pubblico post-punk londinese abituato a esibizione estreme.
I modelli di riferimento di Cave sono evidenti – Iggy Pop e forse ancora di più Lux Interior dei Cramps – ma c’era qualcosa di nuovo e adatto a quei tempi cupi nella sua fisicità incontrollata, nel suo offrirsi in pasto al pubblico cercando una interazione totale che allora poteva davvero essere rischiosa, per lui ma pure per il pubblico. Pensando al personaggio ecumenico e quasi cristologico che è diventato forse si intravede un tenue filo teso tra il venticinquenne maledetto e il sessantenne che sparge saggezza da uomo provato dalla vita e cerca ancora il transfert fisico con gli spettatori, ma fa abbastanza impressione ritrovarsi davanti il Nick Cave di quarant’anni fa. Quasi ce lo eravamo dimenticato.
E tuttavia i Birthday Party non erano solo Cave, e Mutiny in Heaven ce lo ricorda scegliendo giustamente di mantenere equilibrio nella narrazione dando il dovuto spazio agli altri membri del gruppo, che non erano affatto dei comprimari. La composizione di tipi umani della band era già di per sé materiale da film. Se Mick Harvey rappresentava il lato sobrio e raziocinante – concerto all’Underground a parte – e viene da chiedersi quanta resilienza possa contenere una persona normale non solo per essere stata in una band del genere ma per aver continuato a suonare con Nick Cave anche dopo, Rowland Howard emerge come l’alter ego più fragile ma se possibile ancora più tormentato del cantante, in una singolare anticipazione (persino fisica) di quello che sarebbe stato negli anni successivi Blixa Bargeld. Il suo volto scavato e quasi asessuato, strano incrocio tra Christopher Walken e un elfo di Tolkien, rimane impresso quasi quanto il clangore free che riusciva a estrarre dalla sei corde. Quanto a Tracy Pew, sarebbe stato un personaggio da romanzo pulp: uno studente di letteratura dal QI al limite del genio ma tossico perso, con la Repubblica di Platone infilata nella tasca dei pantaloni e una zucchina nella patta, che si fa mettere in galera per sei mesi a causa dell’abitudine di rubare auto e poi di guidarle in stato di ebrezza e senza patente. Morirà nel 1986 in seguito a una crisi epilettica.
Un simile mix di personalità non poteva durare più di quello che è durato, cioè poco. A un certo punto Nick scopre la Bibbia e comincia a dire cose tipo «Dio non parla a me, ma attraverso di me… e ha l’alito che puzza». Non è peraltro la cosa peggiore che ha detto su Dio: nel documentario non poteva mancare qualche frame dal video apocalittico di Nick the Stripper, nel quale Cave compare con scritto sul torace un bestemmione in italiano (sbagliato) che chissà se in caso di distribuzione nel nostro Paese verrà pixelato.
Alla fine del 1982 i Birthday Party, meno Calvert a cui viene dato il benservito, si trasferiscono a Berlino ed è l’inizio della fine. I contrasti tra Cave e Howard non possono più ricomporsi, l’eroina fa il resto. Le ultime immagini di Mutiny in Heaven sono quelle dal palco del Crystal Ballroom di Melbourne, maggio 1983. È il concerto finale della band, cerimonia conclusiva di un processo di dissoluzione innescatosi nel gelo berlinese. Proprio quella Berlino nella quale, da qualche altra parte in quegli stessi giorni, una band italiana iniziava il suo percorso, forse anche influenzato da qualche live dei Birthday Party. Una band che a Berlino è appena tornata, riannodando i fili della propria storia. Ai Birthday Party non potrà mai accadere, e non perché Howard e Pew sono morti e Nick Cave è un’altra persona. Ma perché certi fuochi si possono accendere solo una volta.