Tre anni fa, quasi senza preavviso, David Bowie ha chiuso con The Next Day un decennio in cui non ha registrato LP in studio. L’album che segue quel ritorno inaspettato è una sorpresa persino maggiore: è uno dei dischi più aggressivamente sperimentali mai registrati dal musicista. Prodotto con lo storico collaboratore Tony Visconti e registrato con una piccola band di musicisti jazz newyorkesi, il cui suono è affogato in un’elettronica glaciale, Blackstar rimbalza tra strutture eccentriche e una scrittura pittorica e frammentata. Al primo ascolto è fuorviante: lo swing immobile e la volgarità di ’Tis a Pity She Was a Whore; i gemiti e i sussurri di Bowie, quasi una versione doo-wop dei Kraftwerk, nella distopia sessuale di Girl Loves Me; l’anima sofferente di Dollar Days. Ma ascolto dopo ascolto tutto diventa incredibilmente avvincente. Questo album rappresenta la fuga più soddisfacente di Bowie dal leggendario fascino glam rock di Low e dei suoi anni ’70. Blackstar è davvero strano, sì, e davvero bello.
In prima linea c’è il brano più radicale, il cerimoniale noir che dà titolo all’album. La voce di Bowie è una preghiera vaporosa, mentre armonie spettrali e prive di parole incombono su convulsioni ritmiche; il sassofonista Donny McCaslin si occupa della sostanza, e di farci stare meglio, come Andy Mackay faceva nei Roxy Music dei primi anni ’70. La canzone si trasforma in una ballata blues di una tranquillità lugubre e piena di allusioni disturbanti a sacrifici violenti, soprattutto alla luce degli ultimi avvenimenti (nel testo mancano il chi e il cosa, ma McCaslin ha detto che la canzone “parla dell’ISIS”). “Something happened on the day he died / Spirit rose a meter, then stepped aside”, canta Bowie con quella che suona come una grazia anestetizzata. “Somebody else took his place and bravely cried: I’m a blackstar”. L’uso di un ideogramma come titolo dell’album ha senso qui – non c’è nessuna luce alla fine di questa storia.
L’album include una versione raffinata e dinamica del singolo del 2014 Sue (Or in a Season of Crime), con meno fiati e più elettronica maligna; il brano che dà titolo all’ultimo musical off Broadway, Lazarus (è Bowie a suonare quelle esplosioni nervose di chitarra); e un finale di un’onestà brutale. Bowie compierà 69 anni l’8 gennaio, il giorno in cui uscirà Blackstar. In I Can’t Give Everything Away spiega perché la sua distanza dal pubblico è una scelta di dignità – il suo rifiuto di partire in tour e avere a che fare con il circo mediatico – scontrandosi con la lacerante chitarra fuzz di Ben Monder, un’evocazione furtiva del solo leggendario di Fripp in Heroes. “This is all I ever meant / That’s the message that I sent”, canta Bowie con una voce in buona parte priva di effetti, chiara, elegante, empatica. Questa è una rockstar che si dà solo quando è pronta, e lo fa fino all’estremo.