Non è quando Al Jarreau è talmente ubriaco da non riuscire a beccare le note. Non quando Sheila E taglia la corda irritata perché capisce d’essere stata invitata solo per attirare Prince, suo ambitissimo datore di lavoro. E nemmeno quando Waylon Jennings se ne va rifiutandosi di cantare in swahili come suggeriva Stevie Wonder, una roba che comunque alla fine non farà nessuno. La scena migliore del documentario We Are the World: la notte che ha cambiato il pop riguarda Bob Dylan.
Non si tratta della celebre sequenza del videoclip della canzone in cui tutti intonano gioiosamente il ritornello e Dylan se ne sta lì impalato, lo sguardo perso, un estraneo che ogni tanto apre la bocca, ma poco e a caso. È quando Dylan non sa fare il suo mestiere, o meglio quello che si pensa sia il suo mestiere: cantare. Siamo verso la fine della session del singolo pro Etiopia We Are the World. Dopo aver registrato il ritornello corale, il produttore Quincy Jones passa alle parti singole. Vengono incise posizionando i solisti non in una saletta a parte, ma tutti assieme, disposti a semicerchio, forse anche come incentivo a tirare fuori il massimo dalla propria breve performance essendo esposti allo sguardo e al giudizio dei loro pari.
Viene dunque il turno di Dylan. Con la stanza ancora piena di star un po’ eccitate per l’evento e un po’ esauste per la lunghissima session, il musicista che ha cambiato il corso della storia del rock (per una volta non è un’iperbole) si mette lì con le cuffie in testa e i fogli in mano. L’orologio inserito nel montaggio indica le 5 e mezza del mattino. Sono tutti pronti a vedere il genio in azione, ma Dylan non riesce a cantare, si limita a farfugliare qualcosa. «Ce la puoi fare», dice una voce fuori campo proveniente dalla regia audio. Lui riparte e di nuovo della bocca escono parole incerte, poche note, quasi niente. «Devo provarla un po’ più di volte».
È in evidente difficoltà, è chiaro che non sa come prendere le due semplici frasi che gli toccano, “there’s a choice we’re making, we’re saving our own lives”. Forse è una questione di intenzione, di intonazione, di attacco, forse c’è troppa gente in studio per i suoi gusti. Arriva Quincy Jones e dice che, se vuole, può cantare in una tonalità diversa, sarebbe anzi stupendo se lo facesse. Gli dà insomma il permesso di sbagliare e di considerare quell’errore un virtuosisimo – come dice Huey Lewis, a cui era stata affidata la parte del missing in action Prince, un produttore deve essere anche psicologo. Alla fine se ne esce con un escamotage. Stevie Wonder siede al piano e canta la parte imitando Dylan, che la impara imitando il proprio imitatore. Sono passate le 6. I colleghi vengono fatti sloggiare, Dylan sorride, ce la fa.
È la scena più interessante e autentica perché ci dice qualcosa di quella formidabile adunata di star e di come si sono relazionate. Perché ci mette di fronte ai limiti di un gigante della musica e in questi tempi di autocelebrazioni non lo si vede spesso. E perché dimostra un fatto che non sempre emerge da documentari del genere e cioè che il pop non è una sola cosa, che ci sono musicisti istintivi e completi tecnicamente come Wonder che possono fare di tutto. Ci sono quelli che non sbagliano una nota, che sembrano robot, come Auto-Tune, meglio di Auto-Tune. E poi ci sono i Dylan che hanno un modo personale e a volte anche “sbagliato” di fare musica. Ma da quel modo lì tirano fuori capolavori. E gli si perdona tutto.
Il segmento su Dylan non è certo l’unico momento interessante del documentario di Bad Nguyen dedicato alle session di We Are the World uscito ieri su Netflix, anche se molte storie, compresa quella su His Bobness, erano già note, in alcuni casi si erano già viste. Non sarà stata la greatest night in pop come recita il titolo originale e nemmeno la notte che ha cambiato il pop, come da versione italiana, ma è stata l’occasione rara di riunire tanto star power americano sotto lo stesso tetto, con tutto quello che ne consegue, tra cui un irresistibile effetto Ocean’s 11, come l’ha definito il regista.
Forse We Are the World non sarebbe uscita se la sera del 28 gennaio 1985 a Los Angeles non ci fossero stati gli American Music Awards, occasione rarissima di avere tanti cantanti celebri in una sola città. Si decide così che, una volta finita la cerimonia, sarebbero andati dritti all’A&M Studio, a partire dal presentatore e mattatore di quell’edizione degli AMA, Lionel Richie. Altri sarebbero arrivati autonomamente, come Bruce Springsteen stanchissimo e reduce dal tour di Born in the U.S.A. La tensione che sta alla base della prima parte del film nasce da qui: arriveranno tutti? Come si comporteranno? Si farà in tempo?
Il documentario lo racconta grazie anzitutto ai ricordi di Richie che funge da voce narrante, coscienza pulita del progetto e guida nostalgica in questo grand tour del passato, ma anche agli audio registrati quel giorno dal giornalista di Life David Breslin e ai cameramen presenti nello studio. A fine giornata uno presentò inutilmente fattura, tornò a casa con una t-shirt e una gran storia da ricordare. E chissà chi ce l’ha il foglietto che Quincy Jones appese alla porta dello studio prima dell’arrivo dei cantanti: «Check your ego at the door». Con tutto quell’ego tra i piedi la canzone non sarebbe mai nata. Senza quell’ego i cantanti non sarebbero mai arrivati in quello studio e fatto quelle cose.
Il documentario racconta anche quel che è accaduto prima di quel 28 gennaio, la scrittura della canzone firmata da Lionel Richie e Michael Jackson, la registrazione del demo e ancor prima la ideazione del progetto da parte di Harry Belafonte. Se nel caso di Band Aid erano stati i bianchi ad aiutare i neri, questa volta sarebbero stati i neri (in un primo momento Jackson, Richie, Jones e Wonder) ad aiutare altri neri. Ed è spassoso il racconto di Lionel Richie dei tentativi di scrivere qualcosa di buono a casa di Michael Jackson, tra un serpente che gira liberamente, lo scimpanzé Bubbles da accudire, il merlo indiano e il cane che litigano al piano di sotto perché, parole del re del pop, «il merlo sa parlare e il cane è invidioso».
Se We Are the World doveva essere per forza semplice per essere interpretata da 46 voci e facilotta quanto lo spot di una bibita affinché la gente la comprasse in massa, La notte che ha cambiato il pop è una favola morale che, a parte piccoli contrasti e contrattempi, racconta le session come un’impresa da cui escono tutti vincenti, compresi cantanti che forse gli spettatori di Netflix oggi manco conoscono. Tra i piccoli incidenti di percorso, Cyndi Lauper che non vuole presentarsi perché secondo il fidanzato la canzone è brutta e che poi deve rifare la sua parte più volte perché le collane fanno rumore sbattendo l’una contro l’altra. E poi Prince che chiede, al telefono da un club di L.A., di registrare un assolo in una sala a parte e Richie gli dice di no, che deve stare al gioco come gli altri, e lui rinuncia.
Tra le cose belle, i colleghi che improvvisano Day-O per rendere omaggio a Belafonte, i big come fan che si scambiano autografi sugli spartiti, Bob Geldof che ammutolisce la classe di star indisciplinate raccontando quel che ha visto in Etiopia, Michael Jackson che arriva in anticipo e canta da solo, poche frasi che valgono il documentario, Diana Ross che lascia lo studio per ultima e piange perché non vuole che finisca. Sono memorabili anche le scene che non si vedono e che vengono solo raccontate: Stevie Wonder che si offre di accompagnare Ray Charles in bagno (nel 1985 si potevano ancora fare battute sulle disabilità) e Paul Simon che dice che se una bomba avesse ammazzato tutti in quello studio, John Denver sarebbe tornato ad essere il numero uno.
Essendo soprattutto una celebrazione di quel che accadde tra la sera del 28 e la mattina del 29 gennaio di 39 anni fa, il documentario non spiega come furono impiegati gli 80 milioni raccolti dalla vendita dei dischi, come se il gesto bastasse e avanzasse. Né c’è alcuna discussione dell’aspetto controverso di iniziative come USA for Africa, ovvero la sovrapposizione tra l’intento benefico e l’autocelebrazione delle star. L’idea sottesa è che senza la seconda non ci sarebbe il primo. L’unico momento in cui la bontà del testo di Jackson viene messa in dubbio è quando Smokey Robinson, che se lo può permettere, chiede di cambiare un passaggio sul “donare”, suggerendo l’esortativo “cominciamo a donare”. We Are the World aveva a che fare con la raccolta fondi per le popolazioni dell’Etiopia, ma anche con l’idea che ci si può salvare facendo qualcosa e con la glorificazione del potere positivo delle star.
Alla fine, quando Dylan finalmente canta la sua parte, sa di non avere fatto chissà quale performance. Vorrebbe rifarla, Lionel Richie e Quincy Jones gli dicono esagerando che è perfetta. Jones lo abbraccia. «Se lo dici tu…», replica il cantautore. Dirà poi che non era convinto del messaggio della canzone. «Non penso che la gente possa salvare sé stessa». Magari la gente no, le star sì.