Molti lo trovano insopportabile, altri lo venerano come un messia. Difficile che sia indifferente. Bono si racconta in Surrender. 40 canzoni, una storia (Mondadori) e rivela molto di sé, cosa che in realtà ha sempre fatto, con nuovi aneddoti gustosi, da quel grande affabulatore e storyteller che è. I detrattori, dicevamo. Si possono capire. Sono anni che il leader degli U2 spunta fuori da ogni parte con i suoi occhiali da sole da divo bolso, accanto a Nelson Mandela, il Papa (più di uno), George W. Bush, Bill Clinton, Barack Obama o Angela Merkel a perorare buone cause, invece di limitarsi a cantare. Lui stesso è consapevole di quanto possa essere irritante una ricca rockstar che fa la predica. Ma se ne frega. Perché come spiega lui stesso in Surrender, la celebrità è una cosa ridicola ma è una moneta che può essere spesa per accendere un riflettore su un tema importante. Tanto da coniare per sé una definizione che va oltre l’accezione di attivista, ovvero attualista. Uno che fa. La sua instancabile voglia di provare a combattere alcune ingiustizie, insieme a Ong come One, Jubilee 2000, Data e Red, lo ha portato a ottenere risultati concreti nella lotta alla povertà estrema e all’Aids in Africa. Con alleati improbabili, come racconta lui, ovvero il cowboy George W. Bush, non certo un politico ben visto dal fan medio del rock, che sbloccò miliardi di dollari per i fondi per l’Hiv e i farmaci antiretrovirali.
Nel libro Bono ci porta negli uffici del Congresso a Washington, dove con il suo look da rocker riesce a convincere anche parlamentari repubblicani ultra conservatori, dopo aver studiato noiosissimi rapporti della Banca Mondiale. E al suo fianco in queste campagne ci sono i miliardari della Big Tech come Bill Gates o i grandi finanzieri come Warren Buffett e George Soros. Più o meno il diavolo per la sinistra radicale mondiale, che lo accusa di andare a braccetto con i grandi capitalisti. Cosa che a Bono in realtà non dispiace. Forte del suo motto secondo il quale si può essere in disaccordo su quasi tutto con qualcuno ma se si trova un obiettivo concreto su cui ottenere risultati, allora ne vale la pena. Bono in realtà ritiene il capitalismo un sistema alla fine positivo, se governato da regole giuste. E non elude le contraddizioni tra creare musica e commerciarla. Si definisce «un venditore porta a porta di canzoni e idee».
Ma Surrender non parla solo del Bono attivista, che è in realtà una naturale conseguenza del Bono cantante. In un percorso a ritroso sugli anni degli inizi degli U2 a fine anni ’70 a Dublino iniziato nel 2014 con Songs of Innocence e proseguito nel 2017 con il disco gemello Songs of Experience, ci conduce per mano nelle strade della periferia nord della capitale irlandese dove tutto cominciò. E racconta una grande storia di amicizia, ambizione e fede, che neanche il più incallito hater degli U2 può non trovare straordinaria.
La storia è sostanzialmente nota. Nel 1976 un aspirante batterista, Larry Mullen Jr, appende sulla bacheca della Mount Temple Comprehensive School, un liceo non confessionale e con classi miste (praticamente un unicum nella cattolica Irlanda di quegli anni) un annuncio: “Batterista cerca musicisti per formare gruppo rock”. A rispondere per trovarsi nella cucina della casa di Mullen ci sono Paul David Hewson, Dave Evans e il fratello Dik, Adam Clayton e Ivan McCormick. Dopo qualche settimana McCormick e Dik Evans (futuro membro dei Virgin Prunes) lasciano e la line-up del gruppo che cambierà un paio di nomi prima di chiamarsi definitivamente U2 è la stessa di oggi. Una cosa praticamente unica nella storia del rock. Ma la cosa ancora più incredibile è che quel Paul Hewson, poi diventato Bono Vox of O’Connell Street e successivamente semplicemente Bono, e quel Dave Evans, conosciuto al mondo come The Edge, passano ancora le vacanze insieme nel sud della Francia dove condividono una villa a Èze-sur-Mer, dove spesso sono ospiti del cantante e del chitarrista degli U2 anche il bassista Adam Clayton e il batterista Larry Mullen, insieme a supermodel come Helena Christensen e altre rockstar amiche come Noel Gallagher o Michael Hutchence, il cantante degli Inxs morto suicida, al quale sono dedicate pagine sentite e dolorose.
Quel Bono venditore di canzoni porta a porta racconta in Surrender che quando gli U2 cominciano ad avere qualche canzone propria e un discreto seguito locale, nonostante il parere negativo del manager Paul McGuinness, altra figura cardine per il gruppo, parte per Londra insieme alla sua fidanzata Alison Stewart (poi sposata e ancora oggi sua moglie e sua «migliore amica»), con poche sterline in tasca per portare i demo della band alle riviste musiciali inglesi. E riesce a ottenere un paio di recensioni positive da Record Mirror e Sounds. Da lì arriveranno anche un contratto discografico con la Island di Chris Blackwell, l’etichetta di Bob Marley e il debutto su album con Boy (1980) e una cavalcata che nel giro di sette anni li portò sul tetto del mondo con The Joshua Tree, il disco che fece degli U2 delle star mondiali che riempivano gli stadi e i paladini del rock dei buoni sentimenti. Una scalata, va sottolineato, partita da quell’Irlanda che allora era alla periferia dell’Europa, povera, incupita dalla violenza che si riverberava dal confinante Ulster, soffocata dalla presenza pervasiva e opprimente della Chiesa e con una scena musicale che non andava oltre i confini nazionali, sebbene l’eco della rivoluzione punk della vicina Inghilterra stesse piantando qualche germoglio.
Bono racconta quel percorso, con un ordine non proprio cronologico ma dettato dalle 40 tappe del libro che corrispondono ognuna a un titolo di una canzone del gruppo. Ma il big bang dell’artista e della sua band, entità difficilmente scindibili, proprio per quella alchimia che ha fatto di un gruppo di adolescenti musicalmente quasi analfabeti, ad eccezione del talento in nuce già cristallino per la chitarra di The Edge, risalgono proprio a quegli anni degli esordi a Dublino. O forse ancora prima, in quella Cedarwood Road, la strada dove è Bono è cresciuto e dove diventa amico di ragazzini come Gavin Friday e Guggi, futuri membri dei Virgin Prunes, band dublinese di culto amante del travestimento, tra post punk, David Bowie e Kurt Weill. Entrambi sono ancora amici fraterni di Bono, con Gavin Friday che è consigliere fisso degli U2 e che, come racconta il frontman degli U2, evitò che With or Without You, una delle grandi hit del gruppo finisse per essere cestinata. In quella casa di Ballymun, nel nord della città, Paul vive con il padre Bob, la madre Iris e il fratello maggiore Norman. La sua vita verrà cambiata a 14 anni dall’improvvisa scomparsa della madre, colpita da un aneurisma durante il funerale del proprio padre. Un evento traumatico che cambierà l’esistenza di quel ragazzo, colmo di rabbia in una casa dove sono rimasti tre maschi che si guardano in cagnesco, non comunicano e cercano solo di dimenticare l’assenza di quella donna.
Una rabbia che lo trasformerà in un artista, spiega Bono, che per riempire quel vuoto si butta a capofitto nella musica, per non sapendola suonare, ma “sentendo melodie nella testa”. Melodie a cui avrebbero dato forma i suoi tre compagni di band, come spiega lui per chiarire l’impossibilità di una carriera solista. Un vuoto a causa del quale hai bisogno di sentire ogni sera l’affetto di 20 mila persone in un’arena.
Quel gruppo di amici creò un mondo immaginario, fatto di dadaismo e ironia surreale, chiamato Lypton Village, che tornerà fuori nello Zoo Tv molti anni dopo, dove tutti avevano un soprannome, creato per sfuggire al machismo di quella Irlanda dei loro padri fatta di pub, birre e whisky. Un universo nel quale però si innesta la fede cristiana di Bono, Edge e Larry, contrapposta all’ateismo mondano di Adam e del manager McGuinness, che li porta sull’orlo dello scioglimento nel periodo di October (1981) per l’incompatibilità tra il rock e i valori evangelici. Alla fine sceglieranno il rock, declinato a modo loro, senza i cliché di sesso e droga. E la svolta fu la scrittura di Sunday Bloody Sunday, l’inno marziale contro la violenza settaria tra cattolici e protestanti che stava dilaniando l’Irlanda del Nord. Una presa di posizione contro l’Ira, che l’Esercito repubblicano irlandese non prese molto bene. Tanto che i servizi segreti britannici avvertirono Bono di minacce concrete nei suoi confronti, che avrebbero potuto prendere di mira la moglie Ali, come rivela il cantante nel memoir. Ci sarà poi il Live Aid, con l’inizio dell’impegno di Bono per l’Africa ma che il cantante dice di ricordare solo per la sua pettinatura imbarazzante, quel mullet tipico degli anni ’80, con i capelli cotonati davanti e lunghi dietro, che influenzerà generazioni di roadie del mondo del rock.
Bono racconta quell’era che portò gli U2 negli stadi e sulla copertina di Time come un periodo in cui lui e i suoi compagni di gruppo si divertivano poco, assorbiti dall’ambizione di diventare la più grande band del mondo e dal tenere fede alla loro immagine seriosa di crociati del rock. «Stai diventando troppo serio, dov’è quel buffone che ho conosciuto da ragazza?», gli diceva la moglie Ali. E allora Bono, con la complicità di Brian Eno, una giacca di pelle di plastica da Elvis periodo Las Vegas e un paio di enormi occhiali da sole da mosca, trascina gli altri U2, reticenti, nella svolta a 360 gradi di Acthung Baby e Zoo Tv, con suoni sporchi ed elettronici, un’immagine sexy da rockstar decadenti su un palco gigantesco con megaschermi, televisori che trasmettono aforismi nonsense, auto Trabant della Germania Est comunista che fungono da fari, introdotti dalle immagini del film di propaganda nazista Il trionfo della volontà di Leni Riefenstahl, con ballerine di danza del ventre sullo stage (una di loro, Morleigh Steinberg, diventerà la seconda moglie di The Edge). È la voglia di cambiare, l’amore per la sfida impossibile che ha portato tante volte gli U2 sull’orlo del precipizio. «Non ho mai voluto che gli U2 fossero un sound ma uno spirito», chiosa Bono nel libro, dal quale emerge che la spinta alla trasformazione nel gruppo parte sempre da lui, l’acrobata del circo U2.
Svolte a volte riuscite, a volte meno, a volte furbe, a volte sincere, ma che sono imprescindibili per una band che cerca ancora di tenere il rock al centro della conversazione della cultura pop. Una spinta che fa dire a Bono che il miglior disco degli U2 non è ancora stato fatto. Ovviamente, a meno di miracoli non sarà così, ma sarebbe impossibile chiedere alla band di ripetere capolavori come Boy, The Joshua Tree e Acthung Baby. Ma lui invece sente come un dovere tenere alta l’asticella. Difficile capire se ci creda veramente, ma è proprio questa sua spinta a guardare avanti, mitigata negli ultimi anni da incursioni nel passato, a fare di lui una sorta di ultimo paladino della centralità del rock, o quantomeno del tentativo di risvegliarlo. E se non è un nuovo disco degli U2 a guadagnare i titoli dei giornali, è come viene venduto quel disco nell’era dello streaming che ha cambiato il modo di fruire della musica. Ed ecco che Bono convince la Apple di Tim Cook a comprare il disco degli U2 e a regalarlo ai suoi abbonati. L’operazione, avvenuta con Songs of Innocence, solleva un mare di polemiche legate all’invasività delle grandi compagnie tecnologiche nella vita della gente e reazioni perlopiù negative. E lui in Surrender si prende tutta la responsabilità della vicenda e chiede scusa. «Volevamo mettere il nostro disco accanto al latte sulla porta di casa della gente e se lo sono trovati in frigorifero», chiosa. In realtà forse è un’azione dadaista nel vecchio spirito del Lypton Village.
Bono nel libro porta il lettore anche in alcune passaggi importanti della storia recente. Gli U2 nel 2013 sono a Parigi la sera di novembre della strage del Bataclan, in un day off tra un concerto e l’altro a Bercy. Gli show successivi vengono ovviamente cancellati e riprogrammati a dicembre. La band nei giorni dopo gli attentati va di fronte al locale a portare dei fiori in ricordo delle vittime, come tanti parigini e turisti. Bono ricorda una telefonata con il cantante degli Eagles of Death Metal, Jesse Hughes, ancora sotto shock per essere sfuggito per miracolo alla morte in quel carnaio. E allora nei concerti del mese dopo, in cui portano un po’ di sollievo a una città ancora ferita a morte, gli U2 fanno una cosa da U2. Nei bis invitano sullo stage la band americana, con cui suonano People Have the Power, per poi lasciare agli Eagles of Death Metal il palco «che i terroristi gli avevano portato via» per la loro I Love You All the Time.
Qualche anno dopo il cantante si trova in un ristorante di Nizza con la famiglia quando un jihadista a bordo di un camion travolge la folla sulla vicina Promenade Des Anglais facendo un’altra strage e ricorda la paura di quei momenti, nascosto sotto i tavoli del locale. Fino ai giorni nostri, quando Bono e The Edge portano il rock dove nella loro visione, che dà fastidio ai detrattori, deve stare. Ovvero a Kiev, dove si combatte per la libertà, in un pomeriggio di maggio per una performance acustica su invito di Zelensky nella metropolitana della capitale ucraina per un centinaio di abitanti della città, dopo un viaggio in treno tenuto segreto per ovvi motivi di sicurezza, attraverso il paese sotto i bombardamenti russi.
Ma Surrender è anche ricco di aneddoti, che spesso vedono protagonisti gli amici famosi del cantante. Come il David Bowie sonnambulo ospite nella casa di Dublino della famiglia Hewson, il Paul McCartney che alla guida di un’auto a Liverpool porta Bono in un magical mystery tour nei luoghi dove nacque la leggenda dei Beatles o Quincy Jones a cui viene da ridere in Vaticano alla vista dei mocassini Gucci “funky” di Giovanni Paolo II mentre Bono cerca di perorare la causa della cancellazione del debito dei Paesi africani presso il Santo Padre, Barack Obama che cerca il suo ospite rockstar irlandese durante una cena alla Casa Bianca e lo trova addormentato nel letto di Abraham Lincoln dopo qualche Martini di troppo. Performance sfortunata già avvenuta sul divano della casa di Frank Sinatra a Palm Springs, complici quella volta whisky e ginger ale.
Insomma la vita ordinaria di un cantante rock ambizioso, megalomane, logorroico, incosciente, presenzialista, incontinente, vulcanico, generoso, talentuoso e carismatico. E anche se lui nel libro annuncia di volersi arrendere, l’impressione è che non ce lo leveremo dalle palle ancora per un bel po’.