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Capo Plaza, anche i ricchi piangono

Nel nuovo album ‘Ferite’ il trapper racconta paure e insicurezze. «L’hip hop non è solo spocchia e mascolinità. Spero che il disco possa essere d’aiuto a chi ha attraversato un brutto periodo come il mio»

Foto press

Quando Capo Plaza mi dice che «questo è il disco della consapevolezza» capisco che la trap italiana sta andando dritta a 300 km/h verso chissà dove e il mio boomerismo è solo un vecchio arnese con una retorica obsoleta. Todo cambia, certo, forse troppo: se a 26 anni fai l’album della consapevolezza, a 30, 40, 50 che cosa racconterai? Non glielo chiedo, mi sembrerebbe una mancanza di rispetto per questo ragazzo con una enorme luccicante collana che porta il suo nome d’arte (mi piace immaginare che l’abbia fatta fondendo qualcuno dei suoi 61 dischi di platino con uno dei suoi 30 dischi d’oro), seduto a capotavola di un ufficio della Warner al decimo piano, proprio davanti al cartonato del disco che esce oggi, Ferite, mentre dal lato opposto c’è un gruppo di amici saliti da Salerno per festeggiare.

Luca D’Orso, vero nome di Capo Plaza, sembra molto più disinvolto e sicuro di sé rispetto al 2018 – quando mi venne a trovare a Rolling Stone insieme al suo produttore Ava e a un giurassico PC portatile per farmi ascoltare le tracce del primo album Venti – nonostante la maggior parte dei pezzi di Ferite parlino di paura e insicurezza.

«La paura di fallire è una costante di qualsiasi artista ad alti livelli. Ma questa paura ti aiuta ad avere fame e a non mollare, e il disco testimonia proprio una maturazione personale, non solo artistica». E poi ci sono le ferite appunto, e una sofferenza esibita col suo personalissimo flow e incastrata in beat scuri, che fanno pensare che questo malessere è stato anche una grande risorsa creativa. Lui conferma: «Soffrire ti aiuta a capire chi stai diventando. Sono dovuto crescere molto in fretta».

Mi fa l’esempio di giovani calciatori famosi e ricchi che vanno in giro con lo psicologo per sottolineare come la salute mentale sia il problema di una generazione, senza distinzioni di classe: «I burnout sono momenti quasi inevitabili nella carriera di un artista: io ci sono passato e non posso di ancora di esserne uscito completamente. So che potrà tornare». Ma non c’è traccia nelle canzoni di un vero e proprio racconto biografico: «Ma so che la gente capisce quello che ho passato, ci si ritrova e rivive le stesse sensazioni. Sono storie in cui penso che possano immedesimarsi ragazzi di tutte le età, e spero possa essere d’aiuto a persone che hanno attraversato un periodo cupo come il mio. Questo malessere, a parte il burnout e gli attacchi d’ansia, non lo riesco a spiegare a parole, solo con la musica».

E la musica è sempre trap, con pezzi sia uptempo che lenti, con qualche incursione nel rap, ma le tematiche street e gangsta compaiono solo in Non c’è love e nella bella Soldi arrotolati con Anna: «Ho voluto levare una maschera perché l’hip hop non è solo spocchia e mascolinità, ma anche uno strumento con cui raccontare storie ed emozioni». E le storie sono spesso raccontate a una immaginaria lei: «Mi viene naturale, le donne sono più centrali degli uomini nella mia vita. Credo che noi uomini siamo il fisico e le donne il cervello. E i rapporti con le donne mi hanno lasciato anche molti tagli e ferite».

Poi Capo Plaza torna a concentrarsi sul vero refrain dell’album, che anche i ricchi piangono: «Troppo spesso si pensa che chi è ricco e famoso è felice, ma quei soldi non comprano la felicità o i rapporti veri, anche se sono importanti per vivere meglio».

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Ogni tanto mi sembra che i trapper nelle interviste parlino come i calciatori nel dopo partita ai microfoni di Sky, scandendo senza troppa convinzione e senza ironia frasi fatte a prova di scemo: «Quando ho capito che i soldi non mi facevano stare meglio l’ho detto e qualcuno per questo mi ha criticato sui social». E i soldi, il successo allontanano anche gli amici: è un altro topos del disco, come il gangsta rap è pieno di nemici, l’emo trap consapevole di Plaza è senza amici. Quindi tanto vale fare da sé. «Non ho aspettative per questo disco, l’ho cacciato fuori per me stesso. È uno sfogo, non ho lavorato per andare primo in classifica. Ho seguito la mia testa, senza ascoltare gli altri, e questo mi ha aiutato a superare un momento difficile».

Rimane per fortuna anche un po’ di sano divertimento per questo ragazzo di 26 anni: «Vado in studio e mi diverto come se avessi zero views. Ho imparato ad apprezzare nuovi generi: due anni fa un pezzo come quello con Mahmood non l’avrei mai fatto». Sono stati due anni di lavoro introspettivo, di scrittura notturna, di ascolto di tanta trap americana dark e fumosa, anche di quella del 2016 «perché questa musica non invecchia». Forse non invecchia perché all’inizio non aveva aspettative, proprio come lui oggi. Da qui a bordo campo è tutto, passo la linea alla regia.

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