È partito il tour mondiale dei Depeche Mode per promuovere l’uscita di Memento Mori, ultimo capitolo della discografia del gruppo per la prima volta ridotto a duo. La morte di Andy Fletcher, personaggio chiave nel garantire longevità alla band, aveva fatto pensare che fosse vicina la fine del gruppo. Dave Gahan e Martin Gore hanno invece intenzione di continuare questo viaggio, pagando il giusto tributo a Fletch in ogni spettacolo e tenendo in vita il “marchio” in suo onore. Chiaro che molti – me compreso – hanno pensato: ma perché non si sciolgono? Che cosa potranno mai dire ancora che non sia stato detto?
È da un po’ che i Depeche si rifugiano in uno stile sempre molto raffinato, ma fondamentalmente prevedibile nella formula, in cui l’elettronica è “addomesticata”. Probabilmente solo con Spirit – guarda caso l’ultimo con Fletcher – erano riusciti ad andare in un’altra direzione, tornando a tematiche esplicitamente politiche e a un suono più rozzo.
Prima di Fletch, un altro addio ha indebolito la creatività della band quasi mettendola in ginocchio: quello di Alan Wilder. Demiurgo del sound Depeche Mode, abilissimo polistrumentista, sperimentatore indefesso nel tentativo di fondere la “carne” con la “macchina”, è stato il principale motore delle innovazioni contenute nei dischi dei Depeche fondamentali per il techno pop mondiale e per l’evoluzione di gusto del pop moderno tutto. Dal suo arrivo negli album della band – quindi da Construction Time Again, il primo a contenere campionatori e strumenti avveniristici – c’è stato un tentativo continuo di ibridare vaste influenze (dal cut-and-paste all’industrial, passando per lo spiritual e la musica classica), andando a pescare nelle viscere nascoste del suono elettronico per renderlo “vero”, arrivando al picco assoluto di Violator e Songs of Faith and Devotion, due dischi talmente intensi che alla fine del Devotional Tour la band era quasi disintegrata, tra problemi di droga, dipendenze varie ed esaurimenti nervosi.
È stato questo clima tossico ad allontanare Wilder, un “topo da studio” che passava ore e ore a lavorare con le macchine, agli arrangiamenti, al sound design mentre gli altri sprofondavano nel loro ego e nei loro vizi letali. Alla fine in quel fatidico 1° giugno 1995, simbolicamente nel giorno del suo ventiseiesimo compleanno, Wilder annuncia suo malgrado l’abbandono dei Depeche, una decisione che ancora adesso turba i fan che sperano in un suo ritorno in seno al gruppo e a maggior ragione pregano che accada ora che Fletch è morto. Potrebbe funzionare se dietro ai Depeche Mode non ci fosse una macchina mainstream e commerciale dalla quale Wilder si tiene saggiamente lontano essendone già stato abbondantemente stritolato.
Che i rapporti com gli ex compagni si fossero tranquillizzati è stato palese quando nel 2010 Wilder si è unito a loro per un concerto di beneficenza alla Royal Albert Hall suonando Somebody al piano con Gore, un’esibizione che ha scatenato un boato dal pubblico in sala stile 92 minuti di applausi con evidente imbarazzo della band, praticamente oscurata dalla presenza dell’ex. L’anno seguente, come ciliegina sulla torta, Wilder realizza un remix di In Chains, brano contenuto in Sounds of the Universe, per l’album Remixes 2: 81-11, ed ecco che si ricrea la magia in parte perduta dai Depeche. La nuova versione del pezzo fa capire che cosa sarebbe potuto essere se ai comandi ci fosse stato ancora lui, perfetta fusione tra pop e sperimentalismo, tra cuore e silicio, tra forza e fragilità. Certo, i Depeche dopo di lui hanno comunque scritto Ultra e Exciter, ultimi egregi sprazzi di tensione al nuovo, messi in mano a produttori come Tim Simenon dei Bomb the Bass o a Mark Bell degli LFO a fare le sue veci, ma sempre cercando di reiterare la formula (da lui inventata) di unire chitarre sanguigne a programmazione orchestrale, di cercare il calore della performance applicandolo ai campionamenti.
Dopo avere ascoltato Ultra, Wilder disse che le ritmiche avrebbero avuto bisogno di più groove, con lui sarebbero state meno rigide e in effetti dal vivo era anche un prodigioso batterista. Non solo, suonava le tastiere, era uno ma lavorava per tre quando oggi i Depeche hanno bisogno di un’intera band al seguito altrimenti non sanno che pesci prendere.
Per capire la grandezza di Wilder non ci sono solo gli accorgimenti di sound design dedicati alla band, ma soprattutto la scrittura musicale. Wilder si divide senza problemi tra avanguardia elettronica e canzoni pop: da una parte i Recoil, che sono la sua creatura senza redini, un cavallo brado in continua ricerca di biada sperimentale, dall’altra i Depeche per i quali ha scritto una manciata di canzoni peculiari, per un bel po’ di tempo fisse nella scaletta dei concerti. Il primo disco dei Recoil, 1 + 2, esce nel 1986 ed è un approfondimento delle possibilità catartiche del sampling. I Depeche vengono campionati, riciclati, sezionati e con essi i loro miti, i Kraftwerk, come a dare continuità tra generazioni e soprattutto nel tentativo di superare i maestri (d’altronde il gruppo tedesco è tra i primi a mescolare concreta, pop ed elettronica). 1 + 2 sembra quindi una collezione di miniature di concrete music che mutano continuamente, come cellule che unendosi creano un intero organismo vivente. Ma se il primo vagito dei Recoil è praticamente un tentativo di rendere pop John Cage, il seguente Hydrology sfoggia tutta la cultura classica del nostro, in cui orchestrazione e atmosfera rappresentano la marcia in più, anticipando le ballate “da camera” di Songs of Faith and Devotion. Pioniere dell’ambient anni ’90 e in un certo senso anche dell’IDM, Wilder cura il progetto Recoil fino a farlo diventare la sua unica ragione artistica, trasformandolo da dopolavoro dei Depeche a una forma alternativa di pop a sé stante.
I brani che Wilder scrive per i Depeche Mode hanno la caratteristica di essere di confine. The Landscape Is Changing e Two Minutes Warning sono due intensi inni ecologici, allo stesso tempo apocalittici e integrati. If You Want è una specie di manifesto del Depeche Mode-pensiero, un socialismo distopico, la voce del loser della working class che balla per scaricare le frustrazioni, un nuovo tipo di spiritualità affumicata dalle macerie del sogno hippy (la melodia stile indiano parla chiaro). I pezzi finiti nei lati B sono un modo per sperimentare dietro le quinte certe soluzioni pop con l’umilità di chi sa che superare Gore in quanto ad appeal è impossibile. Ma roba come Fools, In Your Memory e soprattutto i pezzi scritti a quattro mani con Gore forniscono suggestioni che finiscono nei brani principali.
Esistono ad esempio delle demo di quattro pezzi che Wilder ha presentato alla band durante la realizzazione di Some Great Reward dalle quali venne pescato solo If You Want, ma che sono coerenti sia come sonorità che come tematiche con il concept dell’album: basti pensare a Violence, che è praticamente una sorella di Master and Servant, oppure a I Feel No Guilt, che sembra già proiettarsi al successivo disco Black Celebration. Da autore di canzoni in seconda a principale artefice degli arrangiamenti, il passo è breve. Wilder partecipava anche alla realizzazione dei brani di Gore: li vestiva, li nutriva, li faceva letteralmente propri con una cura maniacale e un amore incondizionato per renderli imbattibili. Se Personal Jesus non avesse avuto quei suoni, quelle soluzioni, forse non sarebbe stato altro che un blues bianco da suonare al pub. E invece dopo il trattamento Wilder è diventato uno dei brani più influenti ed ascoltati della storia della musica.
Wilder dal vivo con i Recoil è ancora una forza della natura. Le sue versioni dei classici dei Depeche come Never Let Me Down sono operazioni chirurgiche di smontaggio e rimontaggio in cui del pezzo rimangono solo le parti strumentali normalmente in secondo piano e il resto è solo accennato, ottenendo un effetto dirompente, sciamanico e in definitiva basato sulla profondità dei particolari piuttosto che sulla superficie a tutti evidente. Nel 1997, a cavallo della sua uscita dai Depeche, pubblica Unsound Methods che è un esempio di questa maniera certosina di lavorare. Wilder usa i suoni come colori da spandere su una tela e le atmosfere, guarda un po’, non sembrano distanti da quelle di Ultra, segno che il punto di riferimento per i Depeche rimane ancora lui. La differenza è una questione di fluidità, con i Depeche che ottengono risultati solo con grandissimo sforzo.
Certo, chiaro che Wilder è orfano della band, è una ferita aperta che si sentirà nel mood dei suoi successivi lavori solisti. Anche perché, se è vero che come produttore si è distinto anche per aver lavorato con gente come i Nitzer Ebb, non è riuscito a creare un nuovo Violator. Nel momento in cui i Recoil hanno preso una piega canzonettistica, in particolare a partire da Bloodline, è quasi impossibile trovare un interprete vocale che superi Gahan (il quale candidamente ammette che non hanno neanche provato a chiedere a Wilder di tornare nella band, sicuri che ha di meglio da fare e così anche loro).
Se neanche la morte è riuscita a riunire questi estremi che non si incontrano per partito preso, forse dobbiamo rinunciare all’idea di una nuova line-up dei Depeche Mode che sia la summa di anni di esperienze diverse seppur parallele. Ed è un peccato, perché forse è l’unica cosa che possa giustificare un futuro alla band. Come dice il titolo dell’ultimo album Memento Mori: ragazzi, ripensateci, non è detta l’ultima parola, risuscitate i Depeche Mode.