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Carla Bley era punk

«La miglior ascoltatrice del mondo» era più vicina alla spirito autentico del rock di quanto si pensasse. Breve saggio sulle affinità fra la musicista scomparsa due giorni fa e i sovvertitori che tanto amiamo

Foto: Roger Ressmeyer/Corbis/VCG via Getty Images

«L’ascolto è più importante di ogni altra cosa perché la musica è questo. Qualcuno sta suonando qualcosa e tu lo stai ricevendo. È inviare e ricevere». Questa citazione dal sapore cageiano (col quale in effetti collaborerà registrando The Wonderful Widow of Eighteen Springs rifatta anche da Joey Ramone) è in tutto e per tutto la cifra di Carla Bley, che nel periodo in cui era donna di fatica alla Jazz Gallery si definiva «la miglior ascoltatrice del mondo», carpendo ogni segreto del mestiere “appizzando” l’orecchio.

Gran parte della sua eredità compositiva parte proprio dal concetto di ascolto come composizione, ovvero rielaborazione di ciò che arriva ai nostri timpani, perché se inventare qualcosa dal nulla è un’utopia, il reinventare permette di realizzarla. La compositrice statunitense ci ha lasciato all’età di 87 anni, ma il suo insegnamento sembra più vivido che mai, un approccio sia ludico che rigoroso, in quanto la parola “play” non a caso ha il doppio senso in inglese sia di “suonare”, sia di “giocare”.

Ed è proprio grazie ad un gioco che si sviluppa il suo stile: a 8 anni compra un giocattolo musicale, che però era rotto, e ne diviene inseparabile. È come se portasse avanti nella sua musica una sorta di circuit bending di esecutori e di esecuzioni: lo dimostra ad esempio Musique mécanique del 1977, dove si prende gioco delle convenzioni della musica classica e del jazz, sottolineandone l’assurdità facendola emergere come nuova forza creatrice, usando strumenti arrugginiti come la celesta o il glockenspiel, utilizzando una singolare “tecnica del disco rotto” per improvvisare con la sua band, prodiga a incantarsi come una puntina sulla polvere (e stiamo parlando di gente come il chitarrista Eugene Chadbourne, ovvero quanto di più assurdista si possa chiedere a un solista). In un certo senso, una verve psichedelica interessata a effetti sonori surreali tolti dalla seriosità della musica concreta e uno humor infinito, quasi teatrale, che azzera lo spazio tra palco e pubblico (ma anche tra bandleader ed esecutori, considerati anche essi come dei compositori nella composizione). In un certo senso, la sua libertà performativa/mimica/musicale ricorda quella di Frank Zappa, anche lui tanto ammirato quanto osteggiato in quanto non ortodosso sia come compositore che come musicista.

Bley si autodefiniva per il 99% compositrice e per l’1% pianista, anche se in realtà il suo stile alla tastiera segna l’arrivo di una mente musicalmente complessa alla sintesi strumentale che non si fa tentare dal virtuosismo fine a se stesso ma punta ancora una volta alla composizione in diretta, proprio come succedeva a Gil Evans quando si buttava sui tasti bianchi e neri. Proprio per questa sua apparente irriverenza, che la portò anche a modificare l’inno nazionale americano in minore a mo’ di sottile vilipendio, una specie di versione jazz di quanto fatto da Hendrix, a fine anni ’70 la Bley venne investita del grado di“madrina del punk jazz: prima di allora, aveva diviso il palco con mostri sacri come Don Cherry o Clifford Thornton, diventando un nome di punta nell’ascesa del free jazz. Tutto questo iniziando dalla gavetta come venditrice di sigarette al mitico locale jazz Birdland, ancora restia ad esibirsi nonostante la solida educazione musicale che a soli tre anni gli impartì il padre. Poi l’ incontro e l’amore con Paul Bley, che riconoscerà queste sue incredibili doti spingendola a scrivere (per riconoscenza o semplicemente anche in questo caso per “reinventarlo”, lei manterrà il cognome di lui).

Una volta scesa in campo, Bley sarà una delle compositrici più suonate del jazz (si va da Gary Burton a Art Farmer fino a John Scofield). Ma sarà con il rock che avrà una vera e propria epifania. Dopo l’esperienza nel 1974 con la band di Jack Bruce, con Mick Taylor degli Stones in formazione, ed esaltata dall’esperienza su di giri del tour, decide di mettere su una sua band e di inserirsi come una specie di mina vagante all’interno di quel mondo, che le permetteva una grande libertà stilistica. Eccola quindi flitrare musicalmente con gente come Robert Wyatt e soprattutto Nick Mason dei Pink Floyd, per il quale scriverà l’ intero e – per il sottoscritto – imprescindibile Fictitious Sports, composto ispirandosi al movimento punk (che nel frattempo aveva contagiato anche Mason produttore dei Damned, il quale non a caso si affiderà a lei per l’album).

Con il nome fittizio e da “tutto un programma” di Penny Cillin, all’epoca suonerà le tastiere con la punk band Burning Sensation e negli ’80 collaborerà con i no wavers Golden Palominos, laboratorio di Arto Lindsay e Bill Laswell tra gli altri. Capelli elettrici e personalità quasi post punk ( soprattutto nel cantare), la Bley di fine anni ’70 incoraggiava il pubblico a fargli «booo» ma non solo, spesso gli tiravano la frutta con suo sommo divertimento), si produceva al microfono con commenti poco ortodossi sui costumi dei cavalli, univa il suo carisma sul palcoscenico alla capacità camaleontica di usare diversi stilemi – soprattutto quelli già masticati – sovvertendoli. E infatti, non a caso, il suo interesse per i musicisti amatoriali e per le scelte “sinestetiche” di bandmates (una volta prese Gene “Blue” Tyranny, tastierista di Iggy Pop, esclusivamente per il suo nome inusuale) la trasformerà in una pioniera del geniale dilettantismo di cui gli Einstürzende Neubauten faranno manifesto di intenzioni negli anni ’80.

La sua opera Escalator over the Hill vede la potenza di questi esecutori in fieri, che messi insieme a pezzi da novanta come Gato Barbieri o Enrico Rava danno vita a quello che venne premiato come uno dei migliori album del 1971, una devastante pietra miliare messa su in tre anni tra vocalizzi assurdi, stravaganze jazz/indiane, innesti di rock ed elettronica e pratica dell’imperfezione come forza creativa in cui la parola jazz rock non diventa – finalmente – la garbata/ arrogante gabbia dorata della fusion, ma appunto qualcosa per cui il cervello è situato nel fegato, che vuole sbarazzarsi in un sol colpo di qualsiasi comfort zone, forse addirittura più di un Miles Davis, e non temiamo che qualcuno ci tacci di blasfemia (d’altronde anche lei venne osteggiata dall’intellighenzia jazz quando decise per una svolta FM, quando in realtà si trattava dell’ennesima sfida contro il bigottismo musicale).

Non bastasse, per liberarsi dal giogo dell’industria dell’intrattenimento, fonderà ben due realtà indipendenti insieme al marito e trombettista Michael Mantler, il collettivo JCOA nel 1965 e l’etichetta WATT nel 1972, così come la New Music Distribution Service, esempio lampante di un DIY che le ha permesso di infischiarsene del bon ton. Senza l’esempio di Bley è difficile pensare alle varie generazioni di musicisti “oltraggiosi” che si sono fatti strada cambiando le regole del gioco: basti pensare che la sua NMDS ha aiutato a lanciare le carriere di gente come John Zorn e i Sonic Youth, ma l’eredità è chiara anche in parecchi territori weird, nel post rock, nella performance art musicale, insomma in generale di tutto quello che da fastidio in quanto “personale” ed “eclettico”.

Il suo album Tropic Appetites del 1974 può in effetti essere comparato a quello che succedeva nell’iconoclasta mondo Rock in Opposition con gli Henry Cow e compagnia, che delle sue opere avranno sicuramente fatto tesoro, tanto che collaborerà proprio con Peter Blegvad, ex bassista della band. Testi tra l’ilare e il sublime, musica impazzita che passa dal cabaret all’esotismo asiatico, dal drammatico al lucente, con quel tocco lisergico che non guasta. Il che ci fa subito pensare che Bley è una di quelle che ha spostato l’asticella del jazz verso un approccio progressive, rompendo le barriere tra i due mondi con l’acume che mancava a molti suoi contemporanei.

È molto difficile d’altronde sintetizzare in poche righe questo personaggio multiforme, che ci ha lasciato più di 50 dischi e innumerevoli concerti evento, è anzi una follia il solo pensarlo: ma appunto, mai come ora è importante ascoltarla, riascoltarla, farla ascoltare. Perché «quando studi jazz, la cosa migliore da fare è ascoltare dischi o ascoltare musica dal vivo. Non è come se andassi da un insegnante. Ascolti il ​​più possibile e assorbi tutto». Parola di Carla “punk jazz” Bley.

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