Il giorno di San Valentino è uscito Desire, I Want to Turn into You, il nuovo album di Caroline Polachek che segue, a distanza di tre anni, il fortunato esordio Pang. In un momento non particolarmente florido per la creatività del pop internazionale, l’ambizioso tentativo di scriverne una versione propria, lontana dai canoni di genere e coadiuvato da un’estetica basata su un personale realismo fantastico (Caroline ha anche curato, assieme a Matt Compson, tutti i videoclip fin qui pubblicati) è stato accolto come una ventata di aria fresca dalla critica musicale mondiale che si è espressa con un plauso praticamente unanime nei confronti del disco. In fondo attorno alla musicista americana, oggi 37enne, c’era un bell’hype, pronta com’era – dopo una lunga gavetta – a prendersi un ruolo di rilievo all’interno della scena grazie alla sua capacità di giocare con gusto tra stili, generi, citazioni.
Polachek arriva a questo disco, e a questo hype, dopo una gavetta lunga quindici anni. Un percorso che dagli esordi indie-synth-pop con i Charlift, con cui tra il 2007 e il 2017 pubblica tre album e due EP da autrice e produttrice, passa per il suo primo disco solista a nome Ramona Lisa (Arcadia, 2014), una «pastorale elettronica» scritta e registrata solo con un laptop (senza nemmeno un microfono) nella residenza artistica di Villa Medici a Roma, e per l’ambient minimalista di Drawing the Target Around the Arrow del 2017, firmato con lo pseudonimo di CEP. Nel 2013 è invece co-autrice e co-produttrice di No Angel, presente nel disco di Beyoncé che porta il suo nome, mentre nel 2017 aiuta l’altra Knowles, Solange, per il brano Our Music, di cui cura produzione e scrittura con Blood Orange.
Il grande amore per l’elettronica manifestato in questi progetti la porta a collaborare con una serie di artisti intriganti come Washed Out (in You and I di Within and Without, disco fondamentale del movimento chillwave), Sébastian Tellier, Holy Ghost!, Blood Orange, SBTRKT, Fischerspooner, Delorean (Unhold forse è il brano che meglio ci anticipa la ricercatezza vocale della Polachek di oggi), Oneohtrix Point Never (partecipa ai cori di No Nightmares con The Weeknd), Sega Bodega e tutta una serie di artisti affiliati, o affini, al collettivo inglese PC Music: Felicita, Tommy Cash, A.G. Cook, Christine and the Queens, Charli XCX (di cui sarà anche coinquilina a Los Angeles) e, soprattutto, Danny L Harle, che diventerà produttore artistico di entrambi gli album firmati a nome Caroline Polachek, Pang e Desire.
Certo un curriculum, in musica, può significare tutto e nulla (quanti dischi orrendi di artisti bravissimi ci siamo dovuti subire?), ma in questo caso serve per inquadrare l’hype con cui si attendeva questo disco. Una profondità di carriera – come artista, autrice e produttrice – nella quale è possibile ricostruire la ricerca artistica di Caroline nella composizione e nell’uso della voce, peculiare nei lavori dell’artista e figlia di una lunga formazione passata attraverso lo studio dell’opera e del bel canto (il rapporto Polachek-Italia torna spesso nella sua arte) e la gavetta in gruppi acappella, cori e band nu metal. Una serie di riferimenti a prima vista lontani ma che, in comune, hanno un’attenzione fondamentale nell’utilizzo della voce come strumento (che condivide con artiste come Caroline Shaw o Lisel), evidente in gran parte dei brani di Pang e Desire, e che trova sublimazione nella struggente Non voglio mai vedere il sole tramontare, un’aria scritta (in italiano) per l’adattamento teatrale di Oliver Leith di Last Days, il film di Gus Van Sant del 2005 sugli ultimi giorni di Kurt Cobain. Ascoltarla ci fa intendere, oltre alla tecnica vocale di Polachek, che siamo di fronte a un’artista con una cultura sonora a-genere e un’identità performativa rara nel panorama odierno.
Nonostante 15 anni di carriera conditi da un certo numero di successi (una candidatura ai Grammy, l’esser scelta da Taylor Swift come apertura del tour negli stadi, la viralità del singolo So Hot You’re Hurting My Feeling su TikTok), Polachek continua a muoversi con intelligenza, un passo alla volta, come una ricercatrice rispettosa della propria materia di studio. Il sodalizio con Danny L Harle, da questo lato, le ha permesso in questi tre anni, da Pang a Desire, di lavorare con costanza nella costruzione di un proprio suono e di una propria scrittura per una personale interpretazione della pop music in nome di un educato contrasto dove alto e basso, kitsch e avantgarde, cornamuse e bel canto, possano convivere attraverso la capacità dell’artista di filtrare gli input esterni attraverso sensibilità e cultura. Solo così tutte le stranezze (un commento di YouTube afferma: «È bizzarra, me ne sono innamorata per questo motivo») della composizione di Caroline, in cui troviamo a confronto riferimenti a Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins e Enya, ma anche brani costruiti su beat drum’n’bass in cui il microfono è condiviso con la strana coppia composta da Grimes e dalla rediviva Dido (Fly to You), possono trovare un senso anche laddove, a un primo ascolto, possono far girare la testa per lo straordinario caos in atto.
Tra le varie sperimentazioni contenute in Desire, Sunset è forse il brano più rappresentativo. Scritto e prodotto da Caroline con Danny L Harle e Sega Bodega durante un viaggio in Spagna dopo la morte del padre per Covid e alcuni problemi con il visto per tornare negli States, è un excursus molto particolare nel mondo latin in cui le chitarre acustiche suonate da Samuel Organ, uno dei più interessanti produttori in circolazione (ascoltatevi il suo emozionante album A Safe Space in Cyberspace, in cui ambient e UK bass convivono gioiosamente), incontrano le palmas flamenco di Rosalía e un riff vocale che potrebbe richiamare i Matia Bazar di Antonella Ruggiero (di cui Caroline si è detta fan dopo aver ascoltato Ti sento durante un party a Roma, arrivando a dire: «Questo brano mi ha colpito e mi ha fatto capire dove volessi andare e cosa volessi provare»). Sunset – ai primi ascolti – può far storcere il naso per questa sua ambiguità tra serio e faceto, ma pian piano, proprio per questa sfacciataggine e coraggio nel rielaborare i canoni sonori del pop mondiale, si manifesta per quello che realmente è: una follia d’amore dove le acque sonore del Mediterraneo diventano oceano nell’impossibile matrimonio tra latin pop e i Matia Bazar.
“Questi giorni indosso il mio corpo come un’ospite non desiderata”, canta Caroline nel primo verso di Sunset, un passaggio che ci apre a un altro aspetto del suo lavoro. A livello testuale Polachek indaga libera il desiderio femminile così tanto da volerne – come da titolo dell’ultimo lavoro – diventarne parte. La sua è una scrittura che si distanzia dal significato letterale che richiede il pop, preferendo invece rimanere ambigua, misteriosa, proprio come da caratteristica intrinseca del desiderio. «Penso che nella cultura in generale ci sia una tendenza a voler che tutto sia letterale», ha spiegato in un’intervista a Crack, «ma è come se ci dimenticassimo che non è mai questo ciò che cerchiamo nell’arte».
Caroline Polachek non è una figura messianica del pop, ma una umile e preparata musicista che si sente libera di dare la propria interpretazione a quell’universo sonoro ed estetico. In una carriera costruita da gavetta, studio e ricerca (tre termini che dovrebbero essere scolpiti nella mente di ogni artista, emergente e non) e senza scorciatoie di sorta, Caroline Polachek è un’ottima notizia per la musica pop di oggi. È un reminder curato di quanto sia importante lavorare duramente per costruirsi una credibilità artistica basata, prima di tutto, sulle canzoni. Nel suo lavoro Polachek rivendica, senza drammi, uno spazio per sperimentare, tentare e – soprattutto – sbagliare. Sì, proprio questa possibilità auto-concessa all’errore – oramai un’opzione non più contemplabile nell’era della musica pop algoritmica – è ciò che rende Caroline la più particolare e umana tra le popstar, figure solitamente ultra-umane per antonomasia.
Ricordarci che l’arte, nella musica come altrove, è fuoriuscire dal letterale per entrare nei territori liberati dai canoni imposti, lande in cui è accettato l’errore, l’imbarazzo, il gioco, è ciò che può spingere il pop fuori dalla stanca in cui si è adagiato. Per queste ragioni Caroline Polachek è una splendida artista pop contemporanea. Non comprenderlo è, in un certo senso, arrendersi alla mediocrità del safe pop di questi tempi. Il mondo del pop sa bene che può ambire più in alto e in questo momento, a dargli una mano, c’è Caroline Polachek.