Gli piaceva raccontare di quando negli anni ’70 e ’80 accompagnava in tour Jackson Browne, James Taylor e gli altri cantautori. Una volta, uno di loro stava intrattenendo nel backstage una ragazza. Lindley ha preso una bottiglia di succo di mela, gli si è avvicinato e gli ha detto che il suo campione d’urina era pronto. Chiaramente il frontman, tipo normalmente tranquillo, non l’ha presa benissimo.
A David Lindley, grande polistrumentista scomparso il 3 marzo all’età di 78 anni, non piaceva essere disturbato di mattino presto in hotel. Aveva trovato un modo tutto suo per allontanare le cameriere che volevano rifargli la stanza. «Bussavano alla porta, ma forte. Mica bello. Russell [Kunkel, il batterista] metteva un cartello sulla porta, ma non desistevano. Perciò quando arrivava la cameriera l’accoglievo a quattro zampe facendo il verso d’un doberman e buttandomi contro la porta. A quel punto capivano».
Lindley faceva parte del giro rock di Los Angeles, che aveva animato suonando chitarra (anche slide), violino, mandolino e una varietà d’altri strumenti a corda. Per dire, Running on Empty di Browne sarebbe stato un gran disco anche senza la chitarra slide di Lindley, che però rendeva ancora più eloquenti le parole: anche grazie a lui, sembrava davvero d’essere su un bus in viaggio verso un concerto, in una corsa contro il tempo e la mortalità. Lindley ha contribuito ad arricchire le canzoni di tessiture e sfumature, il segno distintivo delle sue collaborazioni con Ry Cooder, John Prine, Crosby & Nash.
Cresciuto in California, s’era fatto notare alla fine degli anni ’60 come membro della band di acid folk dei Kaleidoscope. Già allora, prima di diventare una sorta di session man superstar, aveva fatto capire di cos’era capace. È suo il violino mistico su Darkness, Darkness degli Youngbloods (1969) e, in teoria, anche sul debutto di Leonard Cohen del 1967 Songs of Leonard Cohen (“in teoria” perché all’epoca non sono stati accreditati i musicisti). Non conoscevi il nome del musicista che suonava in quei dischi, ma volevi assolutamente scoprirlo. Ecco la differenza tra Lindley e gli altri session man a cui richiesto di volare basso, specialmente nel mondo dei folksinger e dei cantautori.
Pure Lindley sapeva come suonare senza mettere in ombra la melodia o il sentimento espresso dalla canzone. Ascoltate il suo violino in Mama Couldn’t Be Persuaded di Warren Zevon o in Heart Like a Wheel di Linda Ronstad, o ancora nella versione di Racing in the Street di Bruce Springsteen pubblicata su The Promise. Non sovrasta la canzone, la valorizza.
È un approccio che è diventato un’arte negli album che ha fatto negli anni ’70 con Jackson Browne. Al di là dei dischi che ha fatto a proprio nome, è per queste incisioni che Lindley viene ricordato. E giustamente. La chitarra acustica in I Thought I Was a Child, il violino in Before the Deluge o la chitarra elettrica in Late for the Sky sono solo alcuni esempi del modo in cui il suo strumento era complementare al canto e alle canzoni di Browne.
Jackson Browne ha capito subito quanto valeva Lindley, fin da quando sono andati in tour assieme in apertura degli Yes. «Non so che pensavano di noi», diceva Browne a proposito dei fan del gruppo prog. «Non facevamo Doctor My Eyes perché non volevo io senza le conga e la batteria. Alla fine del tour, però, ci siamo messi a farla perché il pubblico la richiedeva. Una rivelazione. Il piano bastava a sostenere Lindley che creava un groove pazzesco. Non era nemmeno il chitarrista sul disco, ma l’ha fatta sua. Lì ho capito che non avevo bisogno di una band per suonare con David. Bastava lui».
Lindley aveva un altro grande pregio: conosceva il senso della misura. Il suo violino ha reso ancora più struggenti For a Dancer di Browne e Simple Man di Graham Nash. Sapeva anche dare una scossa a un genere che a volte ne aveva un gran bisogno. Le sue parti di slide erano radicate nel country-blues, ma nelle sue mani lo strumento diventava qualcosa di più. Lo si sente in Red Neck Friend di Browne, nella versione dal vivo di Fieldworker di Crosby & Nash, in Play It All Night Long di Zevon. Gli assoli di Lindley al bottleneck rendono quest’ultima quasi ultraterrena.
E poi c’erano i concerti. Era lì, soprattutto al fianco di Jackson Browne, che Lindley brillava. Si sistemava coi suoi capelli lunghi persino per la moda dell’epoca dietro la sua sfilza di strumenti a corde e suonava. Era una presenza al tempo stesso misteriosa e maliziosa che compensava la cupezza della musica. Era evidente soprattutto in Stay, dove Lindley tirava fuori un falsetto inaspettato ed esilarante.
Lindley era estraneo agli eccessi tipici di quell’epoca del rock. «Alle feste facevo la figura del disadattato e quindi di solito me ne tornavo in hotel», ricordava dieci anni fa. «Quegli aftershow erano pericolosi, se capisci cosa intendo. Me ne tenevo alla larga. Presente il personaggio di Paul Shaffer in This Is Spinal Tap? Ecco una cosa del genere». Browne me l’ha confermato: «Lindley è sempre stato un solitario. Ai party non socializzava con nessuno. Se ne stava nella sua stanza coi suoi strumenti. Ogni santo giorno doveva suonare ed esplorare la possibilità degli strumenti. Ovunque andasse, portava con sé il mandolino o il violino».
Nel 1980 Lindley ha mollato la band di Browne. Era stata un’idea di quest’ultimo, affinché Lindley venisse apprezzato per la sua musica, non per quella degli altri. «È una delle cose più stupide che abbia fatto», ha realizzato anni dopo Browne.
Una volta imboccata la strada solista, Lindley non poteva diventare un cantautore soft. Col suo gruppo, El Rayo-X, ha messo una dose di funk nella sua musica, oltre a continuare ad esplorare reggae e blues. Ha continuato a collaborare con Zevon, Browne e altri, ma la sua passione per la world music – si sentano gli album con Henry Kaiser e i musicisti del Madagascar – ha avuto la meglio.
Tra la metà e la fine degli anni Zero è andato di nuovo con tour con Jackson Browne e ha portato con sé un oud mediorientale e un bouzouki greco, oltre a chitarra hawaiana e violino. «Alcuni fan non lo capiscono», mi disse Lindley. «Se le parti originali erano buone, perché le devi rifare? Ma è come quando vedi un nuovo dolce sul bancone: non lo vuoi provare?». E quando si trattava di scoprire nuove cose, David Lindley non si tirava mai indietro.
Da Rolling Stone US.