L’estate del 2023 ha regalato, insieme a grandine e incendi, anche una specie di ritorno del Brit pop, fenomeno che è espressione dello stesso processo per cui la Gen Z ha ormai adottato l’estetica degli adolescenti di fine anni ’90. Elderly Millennials e late Gen Xs, è arrivato il momento di disperarsi e di piazzare su Vinted le magliettine della Onyx e le giacche della Energie sopravvissute ai vari giri di decluttering.
Dal momento che non possiamo opporci, tanto vale scegliere quale aspetto di questo ritorno abbracciare. Io ho optato per i Pulp, approfittando, per una volta, di essere nel posto giusto al momento giusto: l’isola della Brexit e dell’inflazione impazzita a un punto tale da meritare un nome tutto suo, la Cost of Living Crisis; il posto in cui, siccome non possono respingerli in Libia, spediscono i richiedenti asilo in Rwanda o li piazzano in enormi prigioni galleggianti al largo del Dorset.
Mentre i Blur celebravano l’uscita del loro ultimo album con due serate-trionfo a Wembley, i Pulp, per il tour che li ha visti sul palco per la prima volta dal 2012, hanno optato per un itinerario quasi periferico. Sì certo, hanno suonato a Finsbury Park a Londra a inizio luglio e preso parte a una manciata di festival, ma il “This Is What We Do for an Encore 2023 Tour” ha mantenuto una dimensione ridotta, quasi regionale. In tanti li attendevano a Glastonbury, una sorpresa annunciata che avrebbe consentito di riprendere il posto che è loro fin dal concerto che ne aveva segnato consacrazione, pochi mesi prima dell’uscita di Different Class. Ma sarebbe stata una mossa scontata nel delicato esercizio di equilibrio tra presente e nostalgia che i Pulp hanno tentato di mantenere con questa manciata di date dell’estate 2023.
Maneggiare con grazia un volume enorme di ricordi è un’attività cui Jarvis Cocker si è misurato con una certa regolarità di recente, specialmente attraverso il suo ultimo libro, Good Pop Bad Pop, un’autobiografia in forma di inventario che copre il periodo dalla sua infanzia fino al 1985, arrivato da poco anche in Italia grazie a Jimenez Edizioni (traduzione di Ludovica Marani). Pressato dalla necessità di svuotare la mansarda di una casa londinese in cui aveva accumulato roba per più di vent’anni e dall’urgenza decidere cosa tenere (Keep) e cosa buttare (Cob), Jarvis ha prodotto un libro-catalogo che gioca a nascondino con la sua biografia artistica e personale e si sviluppa come un’indagine sulle radici della creatività, mediata dal rapporto tra oggetti di uso quotidiano e musica pop, visti dalla prospettiva di uno che, per sua stessa ammissione, per tutta la vita non ha voluto altro se non essere una popstar.
Trovano così spazio antichi incarti di gomme da masticare (buttare), il quadernino in cui per la prima volta ha stilato in bella calligrafia il piano che, a partire dal guardaroba, aveva in testa per Pulp (tenere, assolutamente tenere), un pezzetto di sapone avvolto nella confezione originale che, nell’attaccamento nei confronti di un vecchio logo, rivela la disposizione di Jarvis nei confronti del cambiamento (meglio che le cose restino come sono), un depliant dell’Hotel Cartago di Ibiza risalente a una vacanza del 1976, la cui formula tutto incluso prevedeva per ogni cena lo stesso dessert, ma presentato con un nome diverso (i trucchi del mestiere creativo).
C’è spazio anche per la (prei)storia della band, per la versione definitiva del famoso episodio della caduta dalla finestra in seguito al tentativo catastrofico di impressionare una ragazza, ma sono illuminazioni passeggere, circospette nell’esplorare e nello stesso tempo tese a proteggere quello che Jarvis chiama il magic circle della creatività: un processo che non va investigato o compreso del tutto, ma coltivato e nutrito.
E sono proprio l’attenzione al dettaglio e il rifiuto di stabilire una corrispondenza diretta tra oggetto e atto creativo a mettere il resoconto dell’esplorazione della mansarda al riparo dall’aneddotica spicciola e a trasformarlo nella risposta all’esigenza profondamente umana di andare a ripercorrere e interrogare ciò che ha contribuito a farci diventare quello che siamo, fossero anche oggetti pop di consumo. Common people, like us.
Sul palco, questa attenzione al dettaglio si ritrova nei visual che pescano a piene mani dai video della band del periodo ’94-’98: il lampadario dal video This is Hardcore, spezzoni del video di Babies con il Jarvis del presente che guarda il se stesso del passato senza apparentemente accusare il colpo, i diversi loghi che hanno segnato l’evoluzione dell’identità visuale della band, i prodotti brandizzati Pulp per Common People.
In apertura del concerto Jarvis appare alla sommità di una scalinata che occupa buona parte del palco e, per le due ore successive, si dedica a riproporre le sue classiche mosse geometriche e apparentemente scoordinate, l’ancheggiare ossessivo, dando corpo a una specie di spiritello adolescente che veste sontuosi completi di velluto a firma dello storico marchio Edward Sexton e che, canzone dopo canzone, sembra ringiovanire. «He still got it! Old man still has it!» scrivono entusiasti i commentatori online.
La scaletta è composta per lo più di pezzi di Different Class con qualche incursione nei territori di His ’n’ Hers e di This Is Hardcore. C’è spazio anche per alcuni deep cuts, Weeds e Weeds II dal non mai del tutto compreso We Love Life del 2001 e per b-side di varia origine. Non è un set particolarmente avventuroso e viene riproposto praticamente invariato per tutte le date del tour, ma va bene così. Loro sembrano felici di suonare ancora una volta queste canzoni. E le canzoni, sorprendentemente, funzionano ancora, non soltanto per chi, per un paio d’ore, è in vena di rievocare giovinezze più o meno acide, ma anche perché il pubblico delle prime file è composto di adolescenti e ventenni. Ci sono quelli che hanno scoperto i Pulp tramite i genitori e sono venuti insieme a loro, ma anche studenti cinesi dell’università di Nottingham che, quando chiedo come sono finiti a ascoltare i Pulp, sorridono divertiti del mio stupore. Le canzoni sulle diseguaglianze di classe, sulla riscossa dei misshapes, mistakes e misfits, sul sesso immaginato o veicolo di riscatto sociale parlano con una freschezza nuova perché questa fascia di pubblico ha oggi l’età che la band aveva quando le ha proposte per la prima volta.
Spiando le discussioni online scopro fan account brillantissimi gestiti da persone che – quando Jarvis si imbarcava nell’avventura del suo primo rave poi immortalato da Sorted for E’s & Wizz – non esistevano nemmeno come progetto nella testa dei genitori, ma che, nonostante questo, per anni hanno coltivato un culto sotterrano per i Pulp in forma di video sgranati di YouTube.
Questo senso di novità basterebbe da solo a spiegare perché ha ancora senso dire “let’s all meet up in the year 2000”, anche se lo year 2000 è ormai il futuro del passato, in un movimento che, nella mia testa, richiama l’immagine dell’angelo della storia di Paul Klee sospinto verso il futuro mentre tiene lo sguardo fisso sui relitti del passato – solo che, in questo caso, i relitti sono la distesa di oggetti di plastica colorata e le fibre sintetiche degli abiti che Jarvis ha conservato nel loft.
Ma in tutta questa gioia c’è un buco, rappresentato dalla morte di Steve Mackey, bassista della band, avvenuta a marzo 2023. Mackey non aveva in programma di prendere parte alla reunion, tuttavia la sua assenza pesa ed è lì a ricordare che per per quante magie pop la Farfisa di Candida Doyle possa produrre, per quanto Andrew McKinney al basso (già parte del progetto solista Jarv Is) sia attento a non occupare più spazio di quello che gli compete, la morte non si batte. Something Changed, ballatona d’amore, viene dedicata alla memoria di Steve e il cerchio si chiude quando Marley, figlio di Mackey, sale sul palco per suonare Common People insieme alla band.
Come nella precedente reunion, anche questo tour non è stato preludio a nessuna nuova pubblicazione. Tuttavia qualcosina di nuovo i Pulp l’hanno preparato. Hymn of the North, ultimissima canzone che arriva dopo l’ultimo dei bis, è un pezzo che risale ad alcuni anni fa. Nel contesto della pièce teatrale per cui era stato pensato si presentava come un omaggio al nord dell’Inghilterra, perché l’eredità del suo passato industriale non venisse del tutto dimenticata e rimossa. Riproposto ora, con il supporto degli archi dell’Elysian Collective – formazione che ha accompagnato i Pulp per tutto il tour contribuendo in maniera integrale ad arricchire il loro suono – si trasforma in un augurio che ritaglia, nel contesto di un tour che è stato un colorato, gioioso e vivacissimo attraversamento del passato, anche lo spazio per guardare al futuro.
“My only hope’s that you succeed yeah, my only hope’s that you succeed yeah”, ripete Jarvis prima di salutare. Che si stia rivolgendo ai più giovani o a tutti quanti importa, a questo punto, davvero poco.