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Chimica dei sentimenti e gergo motivazionale: una lettura alternativa dei testi di Sanremo 2025

Ecco come suonano le canzoni di Achille Lauro, Fedez, Gaia, Lucio Corsi, Marcella Bella e Tony Effe senza note, senza musica, senza Auto-Tune

Foto: Marcello Junior Dino (1), Michele Perna (2)

Anche quest’anno i testi delle canzoni in gara al Festival di Sanremo sembrano essere stati concepiti appositamente per mettere in difficoltà la nicchia di giornalisti che ha deciso di identificarsi con l’acronimo C.A.N.T.O. (Cronisti Arditi Nel Titillare l’Oracolo) e che si è occupata ancora una volta di scriverne, prima di ascoltare le musiche che li accompagneranno sul palco. Eppure, anche quest’anno, ci abbiamo provato, a partire da quelli che ci sono sembrati, per meriti o altro, i più significativi.

Incoscienti giovani

Achille Lauro

Siamo all’ennesimo capitolo della raccolta di lettere a sé stesso di cui solo Achille Lauro avrebbe potuto e voluto essere editore e target di riferimento, ma che l’artista romano continua a snocciolare a puntate; come, del resto, fa la gente che racconta i propri sogni sui gruppi WhatsApp, un po’ editando e un po’ inventando, per stupire colleghi e parenti.

Dal punto di vista linguistico, Lauro prosegue la sua missione di recupero del dialetto universale del disagio giovanile, un idioma che mescola aforismi tratti da antiche smemorande materne e scorie di sensibilità di ragazzo di strada in carriera. “Oh… bambina” – il pezzo si apre così, con una carezza infantilizzante che sembra evocare dolcezza ma, in realtà, ha tutto il sottotesto minaccioso di un “dobbiamo parlare”. Segue una riflessione sociologica sul concetto di famiglia problematica, servito con la levità di un manuale di psicanalisi della domenica: “E tuo padre non tornava la sera / L’hai visto solo di schiena”. Il padre assente è ormai una figura centrale della canzone italiana, un punto fermo, nella sua precarietà, in grado di fare più danni di una connessione wi-fi troppo stabile.

Lauro esercita un vero magistero nel trasformare situazioni che, nella vita reale, si risolvono in pochi secondi con un messaggio lasciato in visualizzato su WhatsApp, in pagine di esistenzialismo prêt-à-porter. “Ti chiamerò da un autogrill / Tra cento vite o giù di lì” lascia intendere che nel multiverso laurocentrico gli autogrill siano l’equivalente delle cabine telefoniche per Superman: il luogo dove si operano trasformazioni significative o, perlomeno, dove uno ordina un Camogli e, nell’attesa che sia zebrato dalla piastra, ripensa alle proprie scelte amorose.

Ma attenzione, la nostalgia è in agguato: “Dormivamo in un Peugeot / Sì, noi due ladri di fiori”. La mitologia di Lauro è minimalista: l’auto di seconda mano, ma almeno francofona; la criminalità lieve (rubare vegetali è il reato ideale per chi vuole sentirsi ribelle senza esagerare); il mood da Bonnie e Clyde ai tempi delle multe per sosta vietata. “Noi due orfanelli alla roulette / Siamo a Las Vegas sotto un led” ne è il degno epilogo, con il cantante che si immagina in un film di Scorsese girato nel centro commerciale dietro Cinecittà.

Il colpo di grazia sentimentale era già arrivato, poco più su: “Mezza sigaretta e dopo addio”. Che è un po’ l’equivalente lirico di un “Boh vabbè ci sentiamo”, detto con un sospiro mentre si cercava, invano, di fare centro nel cestino.

Battito

Fedez

Se la canzone d’amore tipica si divide tra il romanticismo da cioccolatino e il melodramma da polpettone, Battito di Fedez promette di essere il corrispettivo musicale di una lavanda gastrica fai da te. I sintomi erano chiari: iperventilazione discografica, un’overdose di introspezione non richiesta, carenza cronica di hobby e consumo eccessivo di liste di movimenti bancari. In questa cronaca in tempo reale di tutti i passi falsi di un amore tossico autocertificato, il linguaggio non ha il tempo di adagiarsi su metafore ricercate: la sintassi è spezzata, il respiro è corto e il cuore – ovviamente – batte, batte, batte, ma a vuoto. In altre parole, come sentire tutti e 32 gli anni che sono trascorsi dal Battito animale di Raf.

Il vocabolario psico-farmaceutico è ormai un ospite fisso della canzone italiana. Ma mentre, un tempo, la citazione di un principio attivo era cosa da artisti di nicchia, da Baustelle, ora è diventata un elemento imprescindibile del linguaggio sentimentale di massa. Fedez ci regala una lista della spesa presa direttamente dal ricettario dello sconforto: fluoxetina (antidepressivo), serotonina (ormone della felicità) e, soprattutto, “un bicchiere mezzo pieno con due gocce di veleno” – che sarebbe stato già sufficientemente drammatico senza tutti quei bugiardini da thriller psicologico.

La chimica dei sentimenti è, dunque, instabile, ma quella dei rimedi lo è ancora di più. Perché la sofferenza amorosa 2.0 non si limita più a struggersi su un divano in compagnia di una vaschetta da mezzo chilo di Carte d’Or: ora si diagnostica su Google, in favore di SEO; si medicalizza e, se occorre, si anestetizza in pubblico. Ma non si cura mai.

Se questa canzone fosse stata scritta anche solo una decina di anni fa, il protagonista avrebbe implorato una tregua tra le lacrime e chiesto un’ultima possibilità con un classico, antonaccesco: “Non vivo più senza di te”. Ma siamo nel 2025 e la retorica è cambiata: il rimpianto ha lasciato spazio alla consapevolezza tossica, dove l’unica via d’uscita non è la riconciliazione, ma un’ordinanza restrittiva fai da te (“Prenditi i sogni, pure i miei soldi, basta che resti lontana da me”). Una formula che più che da ballata pop sembra uscita dal gruppo Telegram russo di supporto per relazioni disfunzionali.

A questo punto, la soluzione sarebbe una separazione serena, adulta, consapevole? Certo che no: perché anche quando si chiude, si chiude con stile autodistruttivo. “Ti ho odiata, te lo giuro”, ma con il trasporto emotivo di chi sta già preparando il prossimo post passivo-aggressivo per Instagram. Nel linguaggio sentimentale contemporaneo non c’è spazio per la pacificazione: il conflitto è perpetuo, le rappresaglie sono manipolatorie e le uniche exit strategy percorribili sono quelle farmacologiche e socialmediali.

Al centro del testo, una dichiarazione che ha la stessa carica minacciosa di un interrogatorio sotto poligrafo: “Tu mi conosci meglio di me”. Detto così, potrebbe suonare come un tenero attestato di vicinanza emotiva. In realtà, è il punto nevralgico di ogni relazione patologica che si rispetti: l’altro diventa uno specchio deformante, un’eco disturbante di noi stessi. E quindi via, giù in picchiata nel baratro del sabotaggio proprio e del prossimo, tra schermi di iPhone rotti e relative schegge negli occhi.

Il senso di Battito è molto più profondo di un semplice attacco di panico innescato da un malfunzionamento dell’Auto-Tune dell’amore. È la colonna sonora di una generazione che analizza i propri amori con il lessico della psicologia pop e che ha sostituito le poesie d’amore con i foglietti illustrativi degli antidepressivi.

Chiamo io chiami tu

Gaia

Leggere il testo di Gaia senza il supporto della musica è come cercare di ricostruire un litigio tra amanti a partire da messaggi vocali inviati a metà per puro dispetto reciproco, e in ordine casuale.

Lo smartphone è il sovrano del mondo evocato in questo brano e il suo regno è una comunicazione confusa e sincopata. Ci sono frasi spezzate, ripetizioni ossessive, immagini evocative che si alternano a dichiarazioni forti, che sembrano scritte sotto l’effetto combinato di un mojito di troppo e una frecciatina a mezzo storia di Instagram con l’altra.

Per forza di cose l’amore qui configurato è una sorta di Tetris emotivo in cui i pezzi non combaciano mai, ma si continua a giocare ugualmente. L’unico reale colpo di scena può essere una perdita di segnale: “Menomale che non prende l’iPhone / Tra le onde alte di Rio”. Una scena che oscilla tra la metafora rilevante, attualissima ma trita, di una comunicazione impossibile e il panico di un influencer in vacanza che scopre di non poter fare l’ennesima diretta su TikTok. Ma la realtà è più amara: questo amore è un inferno di silenzi, ripicche e chiamate perse, e non solo perché il telefono non prende; ma perché, anche quando prende, entrambi i protagonisti stanno facendo il gioco del “chi cede per primo”.

La ripetizione martellante di “Chiamo io chiami tu” è un test psicologico, un braccio di ferro emotivo in cui la vittoria corrisponde alla più grande delle sconfitte. L’amore è diventato una chiamata a carico emotivo. Il ritornello è il momento in cui il telefono squilla, e mittente e destinatario, a turno, fissano lo schermo sperando che sia l’altro a crollare e rispondere.

Il vero eroe non celebrato del pezzo è, allora, il tempo che passa senza pietà. Con la crudezza di una sentenza definitiva, arriva il colpo di grazia: “Non serve a niente, tanto è sempre lunedì”. Qui la canzone raggiunge il suo apice di nichilismo relazionale: un ciclo infinito, un eterno ritorno del giorno peggiore della settimana.

Chiamo io chiami tu è un inno alla procrastinazione sentimentale e al ghosting di ritorno. Ci fa rivivere, con precisione chirurgica, e noia mortale, il disagio della generazione odierna nell’affrontare relazioni che esistono solo tra una notifica e l’altra. Perché in fin dei conti, chiami tu, chiamo io o chiama lui, la risposta sarà sempre la stessa: “Messaggio non recapitato”.

Volevo essere un duro

Lucio Corsi

Se il rock italiano ha sempre amato flirtare con l’epica del ribelle, Volevo essere un duro è la dichiarazione d’amore più tenera e stralunata alla categoria degli inadeguati cronici. Un pezzo che suona come il diario segreto di un adolescente che, invece di perdersi nei deliri testosteronici da Fight Club, si accorge che l’unico ring su cui potrebbe brillare è quello del judo, ma solo con la cintura bianca.

Lucio Corsi si inserisce con delicata autoironia nella lunga tradizione dei loser consapevoli, un club che va da Rino Gaetano ai cantautori indie che giocano con il paradosso di chi si auto-svaluta con eleganza. Qui non c’è il culto della sconfitta fatale e tragica, à la Vasco Brondi, ma piuttosto un’adorabile incapacità di prendersi sul serio.

Il testo gioca su una serie di immagini che dovrebbero evocare il machismo più spinto — il lottatore di sumo, il robot impassibile, Tony Effe — ma che, in questo nuovo contesto, assumono una connotazione quasi fiabesca, come se fossero ruoli da recita scolastica che il protagonista prova a indossare per gioco, solo per scoprire che gli stanno tutti larghi.

La sua lotta con il mondo non si combatte a cazzotti o a smargiassate da trapper-furfantello, ma con un’auto-accettazione disarmante. In un universo musicale in cui molti artisti cercano di sembrare più fighi di quello che sono, Lucio si inserisce tra i pochi che hanno il coraggio di esserlo di meno. Eppure alcune delle immagini surreali che produce sono eccezionali. “I girasoli con gli occhiali mi hanno detto: stai attento alla luce” sembra sbucata da un quadro di Magritte.

La canzone è una dichiarazione di resa nei confronti di una società che esalta i bad boy e che non ha scritto abbastanza canzoni sui ragazzi con gli occhi che sembrano truccati di nero perché le hanno prese.

Il suo finale è un piccolo capolavoro di anti-climax: niente colpi di scena, nessuna redenzione, nessuna scoperta del proprio superpotere interiore. Solo l’ammissione: “Non sono altro che Lucio”.

Pelle diamante

Marcella Bella

Il testo proposto da Marcella Bella si potrebbe definire un manifesto plurigenerazionale, rivolto a un triangolo di target (con l’augurio di colpirli tutti e col rischio, purtroppo, di non colpirne nessuno): la Gen Z, che vi potrà ravvedere fiotti copiosi di girlboss energy (garantiti dal trittico valoriale: “Forte, tosta, indipendente”); i Millennial, che vi rintracceranno echi del loro percorso di autoaffermazione, nonché dei loro corsi di inglese pomeridiani (“Star quality”); e i Boomer che giocheranno al trova le differenze con l’epoca degli esordi dell’artista (“Con l’amico mio più sincero, un coniglio dal muso nero”).

L’incipit del brano è una trappola retorica degna di un interrogatorio della CIA: “Dici che / come me / non ne trovi nessuna / Sì, vabbè, poi però / lo ripeti ad ognuna”. È chiaro fin da subito come l’antagonista maschile di Marcella sia un abile venditore di sogni, uno di quelli che ha più stesure dello stesso copione sentimentale di quante ne abbia un dirigente Netflix nel suo filtro antispam. Ma attenzione: la protagonista non cade nella trappola. No, lei ha una “pelle come diamante”, è “sorprendente”, una “mina vagante”. Più che un essere umano, un supereroina della Marvel.

Eppure se, nella prima parte del testo, l’identità femminile sembra scolpita nel titanio, il ritornello viene a ricordarci che, perfino sotto l’intrico di quei ricci, ci può essere una tenera necessità di validazione: “Fammi mille complimenti e stop / Tanto i miei difetti già li so”.

Ecco il punto di svolta. Perché puoi essere dotata di una pluridecennale criniera leonina quanto ti pare ma, ogni tanto, un complimento non guasta. Siamo lontani dall’autocelebrazione ipertrofica della trap femminile alla Cardi B (“I don’t dance now / I make money moves”), e più vicini alla dolce ammissione di una dura che, in fondo, vuole essere capita.

Il testo di Pelle diamante gioca con un registro che mescola il gergo motivazionale del self-help (“La mia più grande fan / Sono io”) con il pragmatismo disilluso di chi ha visto troppe illusioni svanire nella nebbia delle promesse da marinaio (“Non mi tocca niente”). Marcella ci invita a essere fieri e inarrestabili, ma senza perdere il diritto di piangere un po’ di nascosto, quando nessuno ci guarda.

Damme ’na mano

Tony Effe

Sottoporsi alla lettura di un testo di Tony Effe senza la complicità del beat e il sussidio dell’Auto-Tune è un’esperienza che si colloca tra il cadere, consapevolmente, nell’ennesima trappola della pubblicità ingannevole di un annuncio trovato in un bagno della Sapienza e il cercare di instillare senso di responsabilità in un tredicenne che ci ha appena preso in pieno con un TMax taroccato.

A metà strada tra Califano e Fast & Furious, il brano è un ibrido semantico in cui convivono la liturgia del maschio vecchia scuola (“Amo solo mia madre Annarita”), slanci semi-malavitosi (“Come un uomo d’onore”) e la tragedia di un melodramma contemporaneo in cui Roma non è solo uno sfondo, ma un vero e proprio personaggio: le strade della capitale osservano, testimoniano e, per fortuna, giudicano con un’alzata di sopracciglio ogni tentativo del cantante di fare il duro, mentre in realtà sta solo soffrendo come uno studente fuorisede che ha scoperto che una ‘matriciana oggi costa, in media, dai 15 ai 20 euro.

Il testo effiano è scritto in una lingua che oscilla tra il romanesco da commedia anni ’70 e il lessico, più attuale, da er Brasiliano, con il risultato che il dialetto diventa estetica, più che esigenza comunicativa. Il clou della canzone sta in espressioni come:
1) “Damme ‘na mano, sinno me moro”. Qui c’è tutto il classicismo plateale e non autoironico della romanità ubriaca: un grido d’aiuto in cui riecheggia la disperazione di mille coppie scoppiate davanti al pos rotto di un kebabbaro di Trastevere alle 4 del mattino.
2) “C’ho ner core solo ‘na donna e ‘na canzone”. Una dichiarazione di intenti che potrebbe essere incisa sul basamento della statua equestre di qualunque trapper capitolino medio.
3) “Nun conta niente si crolla er monno, io m’aricordo solo de te”. Ovvero quando il tempismo shakespeariano incontra la rassegnazione da fila alle Poste di Piazza San Silvestro all’ora de punta.

Tony Effe usa il dialetto con una straordinaria consapevolezza cinematografica (“Io ho sofferto per te / Ora so fare l’attore”), come se ogni parola fosse pensata per essere sussurrata con un sopracciglio cicatrizzato alzato e spegnendo con rabbia un mozzicone in un posacenere immaginario. Non è un dialetto naturale, ma un’operazione di branding linguistico, una romanità costruita ad arte per evocare tutto ciò che serve: orgoglio, onore e un vago senso di precarietà sentimentale che va bene, purché non precluda i primi due, in un mondo in cui l’amore è un’illusione destinata a incagliarsi nella realtà come un tacco 12 tra i sampietrini.

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