“Preferisco chi si impicca a chi riscatta un fallimento facendosi un famiglia” è una frase scomoda da sentirsi dire, tanto più in una canzone. E non lo è certo, banalmente, perché se la prende col potente di turno, quanto per il suo descrivere un aspetto della realtà che fingiamo di non vedere, che ci convinciamo sia diverso da com’è. Non si tratta neanche – per citare gli Zen Circus di Andate tutti affanculo – di quel “cinismo più bieco e posato” che vende e che ok, sarà pure feroce, ma almeno tira fuori la polvere da sotto il tappeto e ci fa sentire meglio, convincendoci che così, faccia a faccia con la verità, possiamo ripartire più consapevoli. Sostituendo, insomma, una certezza con un’altra. No: un’affermazione del genere porta con sé il deserto, la constatazione di quante cazzate siamo costretti a propinarci per sopravvivere. E non c’è salvezza, qui l’alternativa è la morte. Poi si può essere d’accordo o meno, ma la riflessione che stimola – mica semplice da metabolizzare – resta. E la sensazione che non sia proprio tutto come ce lo raccontiamo, anche.
“Preferisco chi si impicca a chi riscatta un fallimento facendosi un famiglia”, dicevamo, non è uno di quei versi che vuoi trovare in una canzone, non è ascrivibile a uno stereotipo, tantomeno a quello del pessimismo (micro) cosmico dell’it-pop. Infatti arriva a un certo punto di Bugie, l’ultimo singolo di Massimo Pericolo che esce oggi a due anni dal debutto di Scialla sempre. Nel senso: non c’è neanche troppo da stupirsi, il personaggio – se di “personaggio” si può parlare – lo conosciamo. È il rapper di Brebbia, periferia siderale di Varese, che per il videoclip di 7 miliardi brucia la propria tessera elettorale. Penna aggressiva e incazzata, ha riportato al centro dell’hip hop italiano (e per impatto culturale, della nostra musica tutta) rabbia, strada, spintoni alla scena e agli ascoltatori e la galera dove ha trascorso due dei 28 anni che suggerisce la carta d’identità, in un ibrido fra gangsta rap e romanticismo, su cui veglia una scrittura persino raffinata, “vera”, con tutte le – belle – sbavature del caso e il rifiuto, costante, del compromesso. E d’altronde, stavolta, lo dice lui stesso sempre a uscire dai binari: “La vita è un compromesso solo se hai un prezzo”. Lui non ce l’ha, e forse è per questo che vale tantissimo.
A volerla inquadrare nel percorso, insomma, Bugie non è un’eccezione in sé, ma un upgrade verso – tiriamo a immaginare – il secondo disco. La ferocia è intatta nonostante il successo e i quasi quattro minuti di testo fitto, con una nuova ispirazione di densità quasi conscious (ma parecchio incazzata) e sicuramente più cerebrale dell’inno da casa popolare di Sabbie mobili. Siamo dalle parti di Amici, il finale meditato e sempre da cronaca nera di Scialla semper, ma qui il nichilismo è ancor più laminato d’oro. E la produzione liquida e spettrale del solito Crookers, insieme a un ritornello biascicato e zarro, danno un minimo appeal da radio a un episodio che non ha niente da spartire con quelli che viaggiano coi grandi numeri di Massimo Pericolo, rap o meno che siano. Non tanto, appunto, per suoni e a struttura, ma per il testo di questa sorta di flusso di coscienza, da outsider della canzone italiana come il suo autore.
Solo che qui, addirittura, la rabbia diventa quasi la guida di un esame di coscienza collettiva. In cui Massimo Pericolo se lo chiede all’inizio: “Diranno mai la verità sulla verità?”. Nel senso: c’è ciò che ci raccontiamo e che, di riflesso, finisce nei testi delle canzoni più o meno pop; e poi ci sono frasi come quella del suicidio post fallimento, che rompono il velo e denunciano una frustrazione sincera, rendendo il pezzo disturbante. Si scopre alla fine: una verità, unica, non c’è. Non sono i soldi, né rifarsi una vita dopo il carcere (“Un giorno di galera non ti cambia in meglio, un giorno di galera non ti cambia in peggio”; chi altri sa parlarne, e per di più con cotanta credibilità, oggi?), la musica, il successo. Neanche il dubbio, inteso come condizione comune e onnicomprensiva. E Bugie gioca, già dal titolo, con un mondo dominato dal caos, dove niente vale lo sforzo – ma per davvero. Così, contro la retorica di un mondo ovattato, rassicurante persino nelle contraddizioni, vomita – con piglio nevrotico e disilluso, ovviamente – frasi che fanno vacillare le certezze più gettonate nei testi pop, quasi fosse una contro-canzone. Dal padre a cui parla con un “personalmente mi hai dato una mano a crescere e un chiaro esempio di come non vorrei essere”, al ruolo delle forze dell’ordine, dal conflitto generazionale ribaltato in un “non sopporto questi padri amareggiati e tristi, senza virtù fanno figli con i vizi”, fino alla miseria di un “educati a dominare noi stessi per dominare gli eventi” che sottintende una grande perplessità. Nel complesso, è un rovesciamento di stereotipi.
Ecco: per impatto e originalità del testo, siamo davanti a uno dei grandi pezzi del 2021. Quasi un esame di coscienza collettivo, dicevamo, che spinge a riflettere, se ne frega delle tendenze e riafferma la personalità di un artista estremo, che non ha perso la rabbia in vista del secondo album. E il vestito, questo, sta bene esclusivamente a Massimo Pericolo. Tanto che viene da paragonarlo – lo ricordiamo: l’ultima volta che si era fatto vedere, la scorsa estate, era vestito da poliziotto – a un cantautore, per cura dei versi e aderenza con la contemporaneità. Poi la rabbia, l’essere senza compromessi e uno stile sempre più a fuoco fanno il resto. Alla musica italiana, adesso, fare i conti con le proprie bugie.