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RIP

Ciao Johnny, e grazie della rivoluzione

Matteo Romagnoli di Garrincha Dischi è stato un rivoluzionario: ha re-inventato l’indie in Italia. Era un amico e un collega. Un matto, avrebbe detto lui. La musica era per lui un modo per sentirsi meno soli, per sentirsi famiglia. Se n’è andato dopo una lunga malattia. Un ricordo personale

Foto: profilo Instagram @lostatosociale

Scrivo questa confusa e annebbiata lettera d’amore e rispetto e amicizia da una stanza d’hotel nella Valle dei Templi in Sicilia. Una terra che ha migliaia di anni di storia sulle spalle e che ora sembra sgretolarsi di fronte alla notizia, ricevuta su WhatsApp da un numero oramai lontano, della morte di Matteo Romagnoli, amico, musicista e discografico fondatore dell’etichetta indipendente Garrincha Dischi. Un messaggio arrivato dal nulla e che come prima reazione ha portato con sé un fiume di lacrime.

Comunicata la doverosa notizia ai membri della mia ex band, la situazione emotiva è successivamente naufragata di fronte al Tempio della Concordia. Uno spezzone della mia vita è stato infatti al fianco di Matteo che della mia band fu al contempo talent scout, manager e discografico. Sette anni legati indissolubilmente a lui, dormendo pochissimo, suonando moltissimo.

A Matteo Romagnoli devo tanto, ma sono certo lui sapesse quanto gli ero grato. A Matteo devo un bel pezzo decisivo della mia vita – i miei vent’anni – in cui ho potuto incidere dischi e girare per l’Italia facendo la cosa che ai tempi reputavo la più divertente al mondo. Come molte delle band da lui prodotte, soprattutto agli inizi, ho passato giornate e settimane nella casa di Matteo fuori Bologna. Scrivevamo e registravamo. Ridevamo e discutevamo. Parlavamo di politica, storia, musica, filosofia. Facevamo le grigliate, dormivamo sui letti a castello e andavamo a vedere i concerti tutti assieme; lui, io, la band. A volte suo padre. Stando a casa sua ho imparato come funziona uno studio e ho trovato dei fratelli che hanno i nomi di Omar, Francesco, Niccolò, Gianni e una serie di persone a cui ho voluto molto bene e che il tempo e le decisioni personali mi hanno eventualmente fatto perdere di vista. Avevo appena 22 anni la prima volta che sono entrato in quella casa, in quella vita, 28 l’ultima volta che ci ho messo piede. Di anni in mezzo ne son passati tanti – sette per la precisione – e forse tutto è cambiato nel mentre.

Che Matteo era malato era cosa risaputa. Noi della band non sapevamo precisamente cosa avesse, non se ne parlava se non quando accennava a delle nuove cure o quando necessita di momenti di riposo. Parlavamo di tutto, ma su questo non domandavamo, un po’ per rispetto, un po’ perché Matteo era vita, non malattia. Sapevamo che era molto dura per lui e che questo giorno terribile sarebbe arrivato troppo presto. Troppo presto per lui, per suo padre, per la sua balotta. Essì, la sua balotta.

Per Matteo la musica era, prima di tutto, stare insieme. Fare famiglia, stare bene, far del bene. Doveva essere qualcosa di viscerale per lui che era figlio unico e che ho conosciuto in una casa nella campagna bolognese affiancato solamente da suo padre, Raffele detto Lele, una persona di una bontà che non posso che definire struggente. In quella casa Matteo mi ha fatto entrare che ero poco più che ventenne per farmi registrare dei brani. Prima in cantina, poi negli anni – upgrade su upgrade – nello studio casalingo che aveva rivoluzionato l’intera costruzione. Abbiamo provato a registrare un brano insieme, siamo finiti a incidere due dischi, una manciata di EP e una marea di singoli, così, navigando un po’ a vista con l’idea che quella sincerità avrebbe premiato. Perché probabilmente nessuno all’interno della sua label era puro talento artistico, ma la sua forza è stata questa, vedere nella musica una porta per farci sentire meno soli come essere umani. E far sentire meno soli chi ci ascoltava.

Lavorare con Matteo era complesso, divertentissimo e sfiancante. Rispondeva quando voleva, si perdeva, diceva sì a tutto pur sapendo di avere il tempo per poter fare un decimo delle cose a cui aveva acconsentito. Aveva difficoltà a fidarsi, a delegare, a portare dentro la sua visione persone a cui affidare le chiavi della baracca; proprio come me, da figli unici su questo ci capivano. A Matteo – lo ribadisco – devo tanto. È stato il primo e unico ad offrimi un contratto discografico (scusami se non l’ho mai onorato e non ho mai scritto quel quarto album, ma sai che non potevo farcela così), nonché l’unica persona del mondo della musica che ha messo soldi di sua tasca su di me, ai tempi un ragazzetto che con la chitarra sapeva fare 4 accordi ma che pensava di aver qualcosa da condividere al microfono. Per questo Garrincha era una rarità. Dopo sette anni, e prima di Spotify, il progetto è stato chiuso anche se Matteo non era d’accordo. Non disse molto per convincermi, solo che mi capiva, in fondo comprendeva lo struggimento di quella decisione. Per me era come perdere un figlio, per lui un fratello. E questo ci ha eventualmente allontanato negli anni a seguire. Poi è arrivato Spotify e quando le nostre vite erano già altrove abbiamo portato a casa qualche milione di ascolto che penso abbiano significato più per lui che per me, o noi. Non perché Matteo fosse stato un fanatico dei numeri ma perché alla fine anche quella volta aveva avuto ragione lui; un’altra scommessa musicale era stata vinta.

In quegli anni, all’incirca dal 2010 al 2016, ero ed eravamo parte della sua famiglia. Un carrozzone che girava l’Italia sotto il nome di Garrincha Loves, una serie di festival dell’etichetta in cui umanità differenti si ritrovavano sullo stesso palco. E su quei palchi, a volte belli come quel teatro a Genova o sgangherati come quell’altro in un parco a Roma, o come dimenticare l’infinito ciclo di stage diving al Locomotiv di Bologna dove eravamo tutti troppo sbronzi per seguire le sue idee, ci ritrovavamo noi de L’orso, Lo Stato Sociale, La Rappresentante di Lista, L’Officina della Camomilla, i Camillas, i Magellano, i Chewingum, Brace, Costa! e chi altro ho dimenticato ora che sono un po’ appannato in questi ricordi che si accumulano, sovrastano, scontrano.

Come ogni famiglia c’erano scazzi, disagi, frustrazioni (e, perché mentire, preferenze), certo, ma questo suo modo malconcio di tenerci assieme, di tenere assieme la balotta – come avrebbe detto lui – per una causa superiore funzionava. E il divertimento superava ogni lotta interiore o intestina. In quei giorni eravamo così sgangherati che un certo pubblico ci amava tantissimo e fortissimo (e spero che questo pubblico abbia nel cuore quei giorni per ricordare Matteo) nonostante molti altri ci disprezzassero, in particolare alcuni siti, giornalisti, band. O altre label competitor. Non capivano perché avessimo tutto quel seguito, perché quella disagiata combriccola funzionasse in un momento in cui l’indie non esisteva, non aveva mercato, non passava in radio. Cercavano la motivazione nella musica quando invece avrebbero dovuto cercarla nelle motivazioni. Eravamo lì per un motivo, e quel motivo era Matteo. O Johnny come si faceva chiamare. O “il demiurgo” come lo avevamo soprannominato inter nos nella band dopo una data e come amavano – e ameremo spero – ricordarlo nei nostri racconti.

Matteo Romagnoli è stato uno di quelli capaci di re-inventare l’indie in Italia portandolo fino al palco di Sanremo con Lo Stato Sociale (di cui è stato praticamente un membro). Che ce l’avrebbe fatta a portare tutto questo al grande pubblico lo sapeva dal primo giorno, per lui era logico, quasi scontato che il pubblico avrebbe capito la sua visione. In quegli anni in cui da molti eravamo considerati quasi uno scherzo, una barzelletta, un errore del sistema, per altri – un esercito di disagiati uguale a noi – rappresentavamo una possibilità, un luogo sicuro. E Matteo lo sapeva, lui che coi pazzi – come li chiamava lui e a cui aveva anche dedicato un suo disco solista (Sono solo matti miei) – ci lavorava davvero in istituto. Ma alla fine il musicista chi altro è se non un pazzo? Matteo stesso era un pazzo, un folle, un visionario che con le sue idee ha forgiato la scena indie italiana, aiutandola a ribaltare il mainstream. A Sanremo poi sono passati tanti amici di quegli anni. Matteo aveva ragione. I matti erano gli altri che non lo capivano.

Johnny, facciamo un’ultima tonda di «ciao grande» e poi andiamo a casa. È ora, ma stavolta dovrai aspettarci tu.

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