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Quando i Rolling Stones diventavano i Rolling Stones

Il 23 aprile 1971 usciva 'Sticky Fingers', archetipo del classicismo rock non ancora diventato maniera, mix di genio e svacco dilettantistico. Da allora gli Stones più che una band sono stati un brand

Quando i Rolling Stones diventavano i Rolling Stones

Mick Jagger coi Rolling Stones nel marzo 1971

Foto: Ron Howard/Redferns

In una sequenza (non diciamo quale per lasciare lo spoiler giusto a metà) di The Serpent, una delle serie tv Netlfix del momento, a un certo punto parte in sottofondo Moonlight Mile dei Rolling Stones. Deve esistere da qualche parte una legge psicologica non scritta per la quale qualunque canzone ascoltata in una scena madre di una serie tv in automatico diventa più potente e significativa, ma Moonlight Mile è praticamente impossibile migliorarla. Canzone di una bellezza incomparabile, miracoloso impasto di chitarre, pianoforti, archi, trionfale romanticismo e decadenza tossica. «La finimmo verso le 4 o le 5 del mattino», ha raccontato Andy Johns che mixò le session agli Olympic Studios londinesi, «ha quel feeling da luce che comincia a filtrare attraverso le tapparelle». Chiusura perfetta per uno dei più grandi album degli Stones (per qualcuno il più grande in assoluto), oggi splendido cinquantenne.

Sticky Fingers è disco centrale nella carriera della band inglese, snodo fondamentale nella loro storia e archetipo di un classicismo rock non ancora diventato maniera. Iconico in ogni suo aspetto: dalla copertina warholiana, con quella zip delle prime edizioni diventata feticcio collezionistico, al titolo altrettanto ammiccante e sporcaccione, dalle canzoni e le storie che si portano dietro alcune di esse al momento storico in cui uscì. Primo disco degli Stones degli anni ’70 (non contando il live Get Yer Ya-Ya’s Out! dell’anno prima), è il loro benvenuto al decennio che in fin dei conti a loro si adattava meglio, anche più dei ’60 che già li aveva visti protagonisti. L’era dell’Acquario non era roba per Jagger & Richards, e se c’era qualcuno in grado di far capire ai reduci hippy che la festa era finita, e che ne cominciava un’altra alla quale loro non erano invitati, quelli erano proprio gli Stones. Quegli stessi hippy, peraltro, che il protagonista di The Serpent Charles Sobhraj – uno dei più torbidi, crudeli e paradossalmente affascinanti villain mai apparsi nella fiction e purtroppo anche nella realtà – si dilettava a far fuori. Basandosi sulla raffigurazione che dei poveri figli dei fiori dà la serie tv, viene difficile dargli torto.

L’omicidio rituale del flower power e dei sogni Sixties gli Stones lo avevano già compiuto mettendo in scena l’apocalisse di Gimme Shelter due anni prima, e tristestemente meno metaforico ma altrettanto significativo fu il disastro di Altamont proprio a fine decennio. Alcuni dei brani cardine di Sticky Fingers nacquero proprio pochi giorni prima, quando il gruppo si immerse nella fonte battesimale della musica che li aveva formati presso gli studi Muscle Shoals in Alabama, sotto la supervisione di Jim Dickinson. Quel Dickinson che pochi anni più tardi guiderà Alex Chilton nel viaggio notturno e sgangherato del terzo disco dei Big Star. Lì, nel cuore nero del Sud degli States, avevano registrato Brown Sugar, Sway e Wild Horses. Tre brani giganteschi e diversissimi tra loro, come può misurare l’arco emotivo che separa il cinismo rock’n’roll a briglie sciolte di Brown Sugar (che non ha a che fare con la droga, più con lo schiavismo) dalla tenerezza da falò nella prateria di Wild Horses, la cui prima bozza di testo venne scritta da Richards in preda alla nostalgia da tour per il figlio Marlon neonato.

Sticky Fingers è uno dei lavori più vari degli Stones, sia come stilemi musicali che come fonti di ispirazione. C’è il groove latino, festoso e “santaneggiante” di Can’t You Hear Me Knockin’, ma c’è anche la disperazione immersa nella luce gelida, da neon di ospedale, di Sister Morphine, un capolavoro di sordido realismo per il quale vennero riconosciuti i giusti meriti a Marianne Faithfull – che ne aveva scritto parte consistente del testo e l’aveva già interpretata in un singolo – solo trent’anni dopo. C’è il blues di You Gotta Move, presa a prestito da Fred McDowell e nella quale il talento sovrannaturale di Mick Jagger per la mimesi vocale raggiunge l’apice, così impostato da sembrare più vero del vero. C’è il soul (nonostante il titolo) di I Got the Blues. C’è il rockaccio di Bitch, altro titolo che oggi provocherebbe shitstorm a profusione se mai qualcuno avesse l’ardire di proporlo (e il fatto che i tribunali retroattivi non abbiano ancora portato al banco degli imputati gli Stones dà la misura di quanto il rock sia caduto in disgrazia nella memoria e nella cultura popolare). C’è il country di Dead Flowers, la cui giovialità sbarazzina gioca stupendamente d’antitesi con un testo nel quale il protagonista si trova “in cantina, con un ago e un cucchiaio”. E ci sono, infine, le orchestrazioni trionfali e malinconiche di Moonlight Mile.

Neanche a volerlo trovare per forza c’è qualcosa di sbagliato, in Sticky Fingers. Tutti coloro che vi hanno partecipato sono al meglio, dalla band – con un Mick Taylor straordinario alla chitarra solista – ai vari ospiti di lusso (Ry Cooder, Billy Preston, Nicky Hopkins, Jack Nitzsche, la fida sezione fiati Bobby Keys/Jim Price). Sotto diversi aspetti, Sticky Fingers è anche un grumo di contraddizioni. Gli Stones stessi sono un misto di svacco dilettantistico (Dickinson ha dichiarato più volte di non aver mai visto qualcuno suonare in studio più scordato di loro) e di colpi di genio (leggendario l’aneddoto, sempre fonte Dickinson, di Keith che sta a guardare intontito per un pomeriggio i compagni provare a venire a capo di Bitch e poi dice «ok, dai, datemi quella cazzo di chitarra» e piazza il lick che la salva per i posteri).

Ma c’è soprattutto un altro paradosso, nel cuore di questo disco. Perché è proprio qui che gli Stones diventano “gli Stones”. Non nel senso di band ma semmai di brand. Iniziano cioè con Sticky Fingers a entrare nel vestito che non si toglieranno per i successivi cinquant’anni (e probabilmente oltre, visto il dna di Keith Richards), e da questo concept, o se si preferisce formula musicale-estetica, non si schioderanno più. Facendo perdere via via nel corso dei decenni, tranne rari lampi di grandezza, qualunque residua traccia di autenticità sia alla musica che all’immagine da cattivi ragazzi persi tra eroina, jet set, linguacce (è in concomitanza con Sticky Fingers che appare per la prima volta il celebre logo della Rolling Stones Records, che fa anch’essa il suo esordio in questa occasione) e dissolutezze varie. Eppure qui davvero funziona tutto, tutto è ancora magnificamente autentico. E mai più (il successivo, grandioso Exile on Main St. è già una storia diversa) quell’equilibrio tra luce e ombra, tra bene e male, tra peccato e redenzione connoterà la musica degli Stones. Una musica fantastica che nel 1971 probabilmente usciva anche da una radio gracchiante di Kathmandu, a cullare i sogni di qualche hippy. E anche i pensieri criminali di Charles Sobhraj, mentre si accendeva una sigaretta e da qualche tavolo di distanza aveva già puntato loro gli occhi addosso.

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