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Come mi sono ritrovato a fare musica con i suoni del vino

«Ma anche come e perché Paolo Sorrentino mi ha chiesto di sonorizzare un’attesa». Max Casacci racconta l’EP ‘Through the Grapevine (Earthphonia III)’ e la collaborazione col regista

Come mi sono ritrovato a fare musica con i suoni del vino

Max Casacci

Andrea Tavelli.

La prima immagine sonora è quella di un tardo pomeriggio tra i filari di una vigna, nella morbida luce della Franciacorta: cicale, vento, uccelli. Si sentono rintocchi, come di campana, che però sono note di un calice di cristallo, quindi l’esplosione euforizzante di bolle in un bicchiere.

Tutto nasce da una mia esperienza di sonorizzazione, durante la quale le persone del pubblico entravano in una cantina, ne respiravano gli odori, la piacevole umidità, adattavano lo sguardo alla penombra e venivano avvolte da musica realizzata esclusivamente con gli oggetti che vedevano intorno a loro. Senza utilizzo di alcuno strumento musicale.

I calici e le bottiglie, che producono facilmente note, usati come melodie e linee di basso. Le botti, il sapiente gesto rotatorio del remuage tra gli scaffali in legno e il suono esplosivo degli stappi, utilizzati come ingredienti ritmici. E infine l’effervescenza delle bolle, che è suono di per sé inebriante, a caratterizzare la prima tappa di questo percorso intitolata, appunto, Cantine. In omaggio alla buia magia del luogo dove si compiono le lente, delicate, misteriose trasformazioni, tra fermentazioni e successivi affinamenti. Primo brano di un EP, Through the Grapevine (Earthphonia III), realizzato esclusivamente con suoni del vino e della sua lavorazione. Senza strumenti acustici o elettronici, vale forse la pena ripeterlo. 

La vendemmia è uno dei rituali più affascinanti del mondo del vino. Ne ho utilizzato suoni e rumori per crearne una lettura un po’ dionisiaca e un po’ futurista, tradotta in un brano techno, scandito da una cassa realizzata con la caduta dei grappoli e sorretto da una linea di basso estratta dal rombo di un trattore. Curiosamente un motore che “suonava” perfettamente in Do.

Foto: Andrea Tavelli

Tra i suoni rubati alla vendemmia, ne ho osservato attentamente uno. Una specie di “accordo liquido”, generato naturalmente dalle armoniche del versamento del mosto dalla pressa, con il quale ho provato a disegnare uno sciabordio sospeso di onde sonore, quasi ad immaginare un ebbro naufragio nel mosto. A ben pensarci una nobile fine per qualsiasi gaudente. Durante il brano si può ballare, ascoltando le didascalie di una voce che spiega in tempo reale quello che sta suonando, fino ad arrivare al drop scandito dall’annuncio “Trattore”, non a caso titolo della traccia. 

In una vita precedente, Chiara, la proprietaria della Cantina in questione (Bersi Serlini), aveva lavorato nel mondo londinese dell’arte contemporanea, collaborando con artisti della portata di Aphex Twin, Chris Cunningham, Bill Viola. Ecco come è stato possibile immaginare un’opera sonora seguendo un percorso lineare pur partendo da un presupposto, se non folle, quantomeno poco scontato: fare musica con i suoni del vino. Un approccio – apparentemente – concettuale che appartiene poco sia al mondo della discografia che a quello dell’imprenditoria.

Di fatto, la ricerca di modalità, funzioni e fruizioni della musica ancora tutte da esplorare, è uno dei meccanismi che mi hanno condotto fino alle soglie di questo terzo capitolo del progetto Earthphonia.

La tappa conclusiva del viaggio ha nuovamente a che fare con un ambiente, quello delle cisterne e dell’etichettatura delle bottiglie. Le imponenti cisterne metalliche che mi si sono presentate come enormi percussioni, aspettavano solo di essere suonate con i loro riverberi infiniti, campionate e trasformate in riff. In quello stesso spazio ho avvertito una nota di fondo, un respiro sgocciolante che ho registrato e provato a intonare fino ad estrarne una linea di basso. E, visto che  Aphex Twin è stato oggetto di conversazione durante quelle giornate di registrazione, mi sono divertito, ispirandomi a lui, a percuotere un grosso catino in plastica per trasformarlo in una linea di cassa epilettica che dialogasse con i rumori meccanici dell’etichettatrice, a raccontare che l’esperienza del vino ha anche a che fare con elementi meccanici.

Foto: Andrea Tavelli

Non sarò mai abbastanza grato alla musica per avermi regalato, nella vita, un passe-partout capace di mettermi in connessione con luoghi, mondi e persone che mai altrimenti avrei potuto conoscere ed esplorare intimamente. In questo caso il pianeta del vino e della Franciacorta. 

Ma sento di voler ringraziare anche la mia irrequietezza, quella che mi spinge verso l’incognito e che negli ultimi anni mi ha portato a indagare musicalmente rumori, ambienti sonori, ecosistemi, pietre, insetti, tracce sonore della quotidianità… Qualcosa di questa ricerca, nello specifico l’album Earthphonia, è arrivato a incuriosire uno dei miei registi preferiti, Paolo Sorrentino che mi ha contattato per chiedermi, in un primo momento, di ascoltare qualche brano inedito. E successivamente di prendermi cura della tessitura sonora di una sua installazione “La dolce attesa”, ideata per il Salone del Mobile Milano 2025, con la visione scenografica di Margherita Palli.

Paolo Sorrentino non cercava nulla di strettamente musicale e credo abbia valutato che nella terra di mezzo tra suoni, canti della natura e una loro possibile articolazione, potesse trovarsi la pronuncia sonora adatta per definire l’attesa come sospensione quasi ipnotica, come spazio attivo, come momento di ricerca di bellezza.

Ero piuttosto emozionato all’idea di poter lavorare con lui e ho subito provato a lavorare su un respiro ritmico, impastando onde del mare, suoni del vento, ambienti della foresta, mossi dinamicamente dalla pulsazione di un battito cardiaco. Ho fatto attraversare il tutto dal canto di una megattera, che è servito anche per creare un drone di fondo e, per bilanciare e alleggerire il suo suono profondo, ho utilizzato rassicuranti tintinnii di cristallo. Ho provato a farglielo sentire. Ed è stato un “buona la prima”, sentenziato via messaggio da un: «Mi piace un casino!».

È stata soprattutto un’ulteriore sfida, con uno sguardo diverso che in questo caso richiedeva di trasformare in musica un sentimento come l’attesa, che non è silenziosa ma pulsa sotto la superficie. Così il suono è diventato battito del tempo sospeso, presenza che vibra e si contrae come il ritmo cardiaco, per indurre ad ascoltare e guardare l’attesa con cuore e orecchie nuovi.

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