Com’era, com’è ‘Talking Heads: 77’ | Rolling Stone Italia
Canzoni su edifici e serial killer

Com’era, com’è ‘Talking Heads: 77’

Storia di un debutto folgorante che ha sofferto dei contrasti tra David Byrne e il produttore Tony Bongiovi (il cugino di Jon) e che nella riedizione 2024 suona benissimo

Com’era, com’è ‘Talking Heads: 77’

Talking Heads

Foto: Hugh Brown

Aspettando (nei sogni) quella reale, continua la soft reunion dei Talking Heads. Dopo anni di rancori e lontananze per gli ex studenti della Rhode Island School of Design è tempo di pace. Galeotta è stata la riedizione per il 40ennale del film-concerto Stop Making Sense in 4K, per la cui promozione David Byrne, Chris Frantz, Tina Weymouth e Jerry Harrison (l’ex Modern Lovers si aggiunse al terzetto di alunni nel 1977) si sono spesi fra studi televisivi e festival cinematografici. Rivederli assieme dopo più di vent’anni dalla loro ultima apparizione (correva il 2002 quando suonarono quattro canzoni per la loro induction alla Rock and Roll Hall Of Fame) è stata una sorpresa inaspettata.

Ma il ritorno di fiamma per gli autori di Once in a Lifetime non si esaurisce qua. La Rhino ha infatti pubblicato una nuova edizione deluxe ampliata e rimasterizzata di Talking Heads: 77. Il loro folgorante debutto discografico – che contiene Psycho Killer, la loro canzone più famosa – viene ripresentato con l’aggiunta di versioni alternative, outtake e rarità (la maggior parte delle quali già uscite nel primo decennio del millennio durante la riedizione del catalogo in formato Dual Disc) e dell’ultimo live del gruppo al CBGB registrato per la radio il 10 ottobre del 1977, ma mai uscito prima.

Che l’esordio di David Byrne e soci non sarebbe stato un disco di ordinaria amministrazione era chiaro a tutti. In primis a Seymour Stein, leggendario patron della Sire, che il 1° novembre del 1976, il giorno prima delle elezioni presidenziali vinte da Jimmy Carter, aveva messo sotto contratto la band dopo esserne stato estasiato a un concerto al CBGB in cui il gruppo era di casa. Il rodaggio nel tempio del punk di New York, iniziato l’anno precedente come gruppo spalla dei Ramones, gli aveva permesso una gavetta di lusso volta a crearsi un seguito ma soprattutto a elaborare in presa diretta la propria architettura musicale.

Il sound e la poetica immaginata da Byrne, uno scozzese emigrato negli States, genialoide e palesemente nevrotico (anche se anni dopo si è scoperto che soffriva di disturbi dello spettro autistico) autore di quasi tutti i brani, sembrava dirigere tutta la rabbia della gioventù – negli anni ’70 sempre più disincantata e marginale – nell’alveo di una razionalizzazione spiazzante e provocatoria. A partire da testi surreali che più che parlare di vita vera mimavano una presunta normalità, quasi esaltando un’attrazione nonsense per l’omologazione sociale ma al tempo stesso cercando di inviare messaggi positivi e vitalistici indirizzati a un qualche cambiamento emotivo.

“Where, where is my common sense?”, si chiede con pseudo incertezza il personaggio di Uh-Oh, Love Comes to Town. Forse è lo stesso che in Psycho Killer declama versi in francese ripensando all’oscurità della notte passata o che si domanda “What are you, in love with your problems?” in No Compassion. D’altronde la soluzione per non farsi domande è semplice, suggerisce un ragazzo che si sente baciato dalla sorte in Don’t Worry About the Government. Basta solo non preoccuparsi di chi ci governa e coccolarsi nelle contemplazione delle proprie abitazioni: “I’m a lucky guy to live in my building”.

Il modo di cantare indisciplinato di David Byrne sorvola cerebrale e palpitante le tracce musicali. Dondola, stralunato e smarrito, su un’altalena eccentrica che dal desiderio d’integrazione nella cultura di massa arretra verso le pulsioni più profonde dell’inconscio, senza soluzione di continuità. Travolti ed eccitati dalla recita di incompiutezza inquieta del frontman, Harrison, Weymouth e Frantz disegnano gli argini. Geometrie sonore trasversali che passano da accenni soul-funk a un pop-rock elettrico e pulsante. Persino il look da gente comune del quartetto fa parte di questo lessico ancora non affinato ma molto preciso. Le basi del dizionario sono gettate e fra i suoi vocaboli non sfugge la mancanza del termine punk.

Foto: Mick Rock

Se fino al 1977 non si erano ancora sentiti pronti per lo studio di registrazione, di sicuro i Talking Heads erano consci di poter rappresentare una novità anche all’interno del genere imperante del momento. Si trovarono collateralmente nell’epicentro della rivoluzione del 1976-1977, ma sono un altro tipo di novità.

Nella più prosaica quotidianità i conflitti esplosero come spesso accade in sala di incisione. Il repertorio da registrare era nelle mani di Tony Bongiovi, cugino maggiore di Jon, alle prese in quei mesi con la realizzazione dei Power Station Studios, produttore designato, assieme a Lance Quinn, dalla Sire. Anche se aveva già curato il primo singolo dei Talking Heads assieme a Thomas Erdelyi (Tommy Ramone) ed era da loro apprezzato per il lavoro su Leave Home dei ragazzacci di Forest Hills (di cui produsse anche Rocket to Russia), i tempi in studio si dilungarono e gli animi si incarognirono. Bongiovi, forse obnubilato dai fumi disco della versione dance di Star Wars a cui stava lavorando, aveva in mente di fare un disco commerciale che poco aveva da spartire con la visione artistica del gruppo.

Per questo, contro la volontà dei quattro e sconsigliato dagli altri collaboratori, fece rifare molte take di brani già dati per buoni e puntò a creare sonorità poco stratificate, secche e pulite che non davano sufficiente respiro ai materiali. Nessun disco dei Talking Heads, in effetti, suona così scarno e minimale. Ma la bontà delle canzoni salva anche dischi incompresi. Oltre a Psycho Killer (oggi presentata nelle sue tre versioni: ufficiale, acustica e alternativa) e ai brani già citati ci sono altre canzoni notevoli come Tentative Decisions, Happy Day e soprattutto The Book I Read, una delle più entusiasmanti invenzioni di David Byrne.

Di sicuro quando il gruppo decise la tracklist aveva pronti due album. Quelle che non finirono in Talking Heads: 77 confluiranno nel suo seguito naturale More Songs About Buildings and Food (1978) che ebbe però la fortuna di avere un singolo di successo – la cover di Take Me to the River di Al Green – ma soprattutto di esser prodotto da un fervente ammiratore della band: un certo Brian Eno. Talmente innamorato del gruppo da scrivere una canzone intitolata con l’anagramma del suo nome: King’s Lead Hat per l’album Before and After Science.

La copertina, ancora oggi una delle più riconoscibili dell’epoca, fu concepita in proprio, vista la competenza grafica dell’ensemble, utilizzando su proposta di Byrne le colorazioni particolari della fucina Day-Glo, storica azienda americana specializzata in vernici e pigmenti fluorescenti. La band, che aveva l’obiettivo di far risaltare l’album nei negozi di dischi, scelse rosso e verde complementari che bene si associavano alla scritta in Times Roman Bold Italic suggerita da Yann, fratello della Weymouth, per ottenere un effetto da titolo giornalistico.

Ci fu poi anche un mistero o, meglio, una leggenda metropolitana. Tina Weymouth, fidanzata e futura sposa del batterista Chris Frantz, all’inizio poco incline a imbracciare uno strumento per la causa dei suoi ex compagni di scuola, era una bassista alle prime armi e in diverse occasioni le verrà instillato il dubbio che le sue tracce di basso fossero state rimpiazzate da qualcun altro. Fa fede Ed Stasium, che nel libretto del box set assicura a titolo definitivo che il basso che si sente nel disco è proprio quello della Weymouth. Le tracce di batteria di Frantz rappresentarono invece la “cassaforte” del disco, mentre Harrison – alle chitarre e alle tastiere – aveva dalla sua l’esperienza nei gruppi di Jonathan Richman e di Elliott Murphy.

Quinn e Stasium alla fine si rivelarono preziosi alleati. Quieti baluardi, cercarono di tenere in piedi le sessioni e riuscirono a bypassare Bongiovi con degli espedienti. Anche perché quest’ultimo, se da un lato esprimeva divergenza artistiche e al contempo si disinteressava spesso del progetto facendo altro (leggendo giornali, facendo telefonate, ricordò Frantz), dall’altro si ostinava a prendere di petto la band. In particolare ce l’aveva con Weymouth in quanto ritenuta non all’altezza del compito e con David Byrne perché si atteggiava troppo da cantante alternativo mentre a suo parere doveva eseguire i pezzi in modo più classico e drammatico. Tragicomica la scena in cui gli chiese di prendere un coltello dalla cucina per impersonare in modo più credibile Psycho Killer. Il frontman non la prese bene e abbandonò senza dare spiegazioni i Sundragon Studios. Da quel momento non cantò più in presenza del produttore

Se il piatto forte della riedizione di Talking Heads: 77 è certamente l’ultimo concerto inedito al CGBG, un vero e proprio documento storico ritrovato che ci fa capire com’erano già grandi sul palco i Talking Heads degli inizi, è un piacere estetico e da audiofilo avere raccolte tutte assieme le rarità del periodo e una rimasterizzazione da urlo. Grazie alle versioni alternative in chiave pop di alcune canzoni (New Feeling, Uh-Oh, Love Comes to Town, Pulled Up) o le acustiche di Psycho Killer (uno degli inediti con il prezioso contributo del violoncello di Arthur Russell) e First Week/Last Week… Carefree, cogliamo infatti il formidabile eclettismo del gruppo e ne intuiamo la direzione futura. Ma la cosa che salta più all’occhio o, meglio, alle orecchie, è come suona l’album originale: mai così pieno, mai così definito. Ancora meglio della versione del 2005 che già aveva migliorato la prima edizione. Forse Talking Heads: 77 ora suona davvero come era nelle intenzioni di chi l’ha pensato.