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Compie 77 anni Al Bano, il King del Sud che ha suonato con gli Stones, dialogato col Papa e fatto cash tutta la vita

Mentre noi cerchiamo di capire la musica che cambia, la trap e le mode, Al Bano è se stesso da cinquant’anni e tiene botta. E quando canta, ti spettina ancora

Foto di Alessandro Treves

«Al Bano è il nostro Michael Jackson»
(Checco Zalone)

La Puglia ha due idoli intoccabili: Padre Pio e Al Bano. Del primo le spoglie (una riproduzione) sono esposte nel mausoleo di San Giovanni Rotondo, e rappresentano la dimensione mistica del Tavoliere. Il secondo oggi compie 77 anni e si appresta ad essere in vita il king incontrastato del folklore pugliese.

Per i millennial e i lettori di questa testata, il nome di Al Bano forse suona più come una sorta di meme umano, ma in realtà è il punto massimo di successo e di un orgoglio del sud, che raramente è stato eguagliato. Mesi fa Canale 5 gli dedicò un documentario in prima serata che a vederlo ti stendeva.

Non ti trovavi di fronte all’Al Bano di Felicità (comunque 25 milioni di copie vendute in tutto il mondo) e Nel Sole, della voce che va più alta di una tromba, del cappello che non toglie nemmeno a tavola e degli occhiali che hanno la stessa montatura da cinquant’anni. Sembrava il Bob Dylan del Tacco. Origini umili, leggende, maledizioni, successo, dolore. La perdita di una figlia (dettaglio tetro: per fuggire ai paparazzi quando nacque Ylenia la famiglia scappò dall’ospedale passando dalla camera mortuaria), un divorzio chiacchieratissimo con strascichi velenosi (Romina disse che era un violento e un dittatore, che le aveva mollato un calcio, lui rispose che la moglie fumava le canne con la figlia e che per cinque anni non era andata a letto con lui) e riappacificamenti. In terra sua ha raggiunto livelli di notorietà e riverenza tipo Maradona a Napoli e all’estero lo chiamano a suonare in tutti i palchi del mondo, dove fa sempre il pieno. Suona pure per i magnati russi con cachet da panico e ottanta persone nel servizio di sicurezza.

Noi abbiamo la musica che cambia, la trap, le mode. Al Bano è sempre Al Bano da cinquant’anni e spacca come non mai. All’inizio della mia carriera di fotografo gli feci uno scatto alle Terme di Montecatini, dove sopra un piedistallo firmava decine di autografi del suo libro. mai vista una folla così se non per Berlusconi. C’erano carabinieri, polizia, questura e vigili per contenere il casino. E non bastava. Le vecchie erano assatanate. Signore truccate e improfumate gli si offrivano per una dedica, lui firmava manco fosse un mito greco. E la sua storia sa di mitologia.

In quella Puglia che Carmelo Bene chiamava “depensamento dell’antica Grecia”, i suoi genitori lo dettero alla luce dopo una fuitina, la fuga d’amore con cui si era soliti raggirare la volontà delle famiglie che si opponevano ai matrimoni. All’epoca non era come oggi. Il padre stava partendo per il fronte in Albania e decise di battezzare il nuovo nato Albano. Non a caso oggi il cantante è cittadino albanese. Quella tra i genitori era una passione amorosa romanzesca. Non potendo vedersi durante la guerra, con lettere appassionate la madre decise di dormire senza coperte per segno di vicinanza allo sposo sui monti gelidi dell’est. Nella tempesta, Al Bano è il figlio di quel fuoco. Trasuda sensualità. Lo so che storcerete il naso ma le donne sono pazze di lui. Certo non le ventenni, ma non avrebbe problemi ad affascinare pure loro.

Al Bano ha aperto il tour dei Rolling Stones in quattro date italiane, è stato ricevuto in udienza privata da Giovanni Paolo II e si è esibito per lui dedicandogli Volare. Nel 1997 è stato nominato “ambasciatore contro la droga” dall’ONU. Madre Teresa di Calcutta è stata la madrina della sua terza figlia. Ha vinto ventisei dischi d’oro, otto di platino e partecipato a undici Sanremo. Ha portato a processo Michael Jackson per avergli copiato I cigni di Balaka per la sua Will You Be There e ha vinto in primo grado. L’accusa in secondo grado l’ha scampata solo sostenendo che Al Bano stesso avesse plagiato un pezzo indiano. I due si misero d’accordo per quattro milioni di lire di risarcimento all’italiana e un duetto di riappacificazione, ma lo scandalo pedofilia di Jackson fece saltare tutto. Peccato, sarebbe stato memorabile.

Mentre l’Italia viveva gli anni dell’impegno politico lui veniva considerato il pupillo di Andreotti e questo, a detta sua, gli costò l’addio alla tv per il decennio 70-80. Ma non c’era problema: suonava in Australia, Germania, Russia. Faceva cash a livelli altissimi, altro che Gué Pequeno e i trapper che accendono i sigari con le banconote da 50 euro nei videoclip e poi dopo le riattaccano con lo scotch.

Al Bano ha suonato in tutto il mondo, ha fatto un sacco di soldi, ha conquistato tutto quello che c’era da conquistare, ma nel suo studio tiene ancora la coppa di terzo classificato a un concorso canoro vinto a Milano a vent’anni. L’assegno da otto milioni del primo disco non lo incassò nemmeno, lo girò al padre. Da bambino lo mettevano a lavorare nei campi e come in un libro di Steinbeck e quello cantava in mezzo ai contadini. Era la pizzica pugliese e non il blues dell’Oklahoma ma quel ragazzino aveva una voce d’oro. Lo facevano girare tra feste, patroni, madonne sacre, processioni e quello già pestava come un cantante.

Della scuola non gli importava, amava lavorare nel campo. Il padre lo voleva contadino ma lui diede picche a tutti e nemmeno diciottenne partì per Milano dove abitava in una catapecchia occupata e faceva l’imbianchino. Frequentava il clan di Celentano (che mai lo degnò di uno sguardo) e si impose piano piano. Prima di salire sul palco per il suo primo concerto vomitò per la tensione. Nella sua autobiografia racconta del 1964, l’anno in cui ottenne il suo primo contratto e incise un disco in cui reinterpretava le canzoni di Gene Pitney. «Ero il primo italiano che cantava il blues». Massimo Ranieri ricorda che fu definito il James Brown italiano e Gianni Borgna, storico della canzone italiana ha scritto: «Felicità è un magnifico esempio della standardizzazione della musica leggera teorizzata da Adorno nell’Introduzione alla Sociologia della musica». Eppure non bastava.

La massa lo ha catalogato in un’area a metà tra il trash televisivo (colpa anche una partecipazione all’Isola dei Famosi in pieno caos con la Lecciso) e un sound rimasto fermo nel tempo. Ma lui è sempre stato uno forte in salita. C’era un poster nella sede della casa discografica in cui il nome Al Bano era stato storpiato in Al Bagno, una cattiveria che invece che demolirlo lo ha motivato.

Oggi Cellino San Marco, la sua città è famosa nel mondo e lui stesso si dice (giustamente) responsabile dell’esplosione della Puglia nei gusti degli italiani degli ultimi vent’anni. Terrone, contadino, padrone di diverse società tra cui una vinicola e una agricola, vende i suoi vini e il suo olio. Crede in Dio, crede nella famiglia, rappresenta i valori di un Paese che non c’è più. E tutto questo in vita. Tiene botta. E quando canta, ti spettina ancora. Come le vere leggende. Auguri King!

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