Quando nel 1991 il regista Alek Keshishian decise di trasformare le riprese del backstage del tour Blonde Ambition di Madonna in un lungometraggio, definì a tutti gli effetti quelli che dovevano essere gli stilemi di un documentario incentrato sulla vita di artista in completa ascesa. «La cosa più sorprendente di A letto con Madonna 30 anni dopo la sua uscita è che, a differenza dei soggetti dei documentari pop di oggi, che tendono a enfatizzare la solitudine e i problemi personali, Madonna sembrava che si stesse divertendo. Molto prima che i social media deformassero la percezione del sé di una celebrità, Madonna comprendeva i meccanismi della fama in un modo che alcuni dei suoi coetanei non capivano tanto da confermare che “anche se la telecamera mi seguisse per tutta la vita, come potresti mai conoscermi davvero completamente?”».
Attraverso tale quesito si nasconde perfettamente il mistero di ciò che, da semplici spettatori di queste operazioni, pensiamo di osservare e conoscere delle nostre superstar preferite e che ci spinge ancor di più ad interrogarci su quale sia oggi il fine per cui vengono prodotti documentari di questo genere. Come analizzato nel reportage del Guardian, “It’s my lyfe: the rise of the pop-star scripted documentary”, firmato dalla giornalista Simran Hans, si delinea come il fine di tali produzioni non sia prettamente economico (nonostante si stimi che Amazon e Apple TV+ abbiano investito rispettivamente 25 milioni di dollari per la realizzazione dei documentari su Rihanna e Billie Eilish, andando quasi ad eguagliare l’accordo da 60 milioni siglato da Beyoncé con Netflix nel 2019), ma rappresenti l’intenzione di far entrare direttamente il fan negli aspetti più reconditi e privati di un’artista, fidelizzandolo alla sua immagine. Ad oggi, i documentari delle popstar vengono spesso prodotti in collaborazione con l’etichetta discografica e con il team creativo di un artista, attraverso una rappresentazione cinematografica redatta attorno a una tesi ben delineata da sembrare perennemente e artificialmente costruita.
Uno dei documentari di maggior successo degli ultimi anni come Miss Americana, uscito il 31 gennaio del 2020 su Netflix e diretto da Lana Wilson, confezionava un’immagine nuova di Taylor Swift dopo le débâcle ai Grammy del 2018, vogliosa di intraprendere una nuova fase della sua carriera che non si sarebbe limitata unicamente alla sua figura di musicista, ma concentrata nel diventare una vera fonte di ispirazione per la nuova generazione. La catalizzatrice di un nuovo e specifico messaggio.
La struttura del documentario seguiva pedissequamente alcuni momenti significativi della sua vita e carriera, compreso l’attacco di Kanye West subito durante la premiazione agli MTV Video Music Awards nel 2009 così come la causa contro David Mueller, ex conduttore radiofonico, reo di averla molestata, facendo sì che Swift iniziasse a rendersi conto che molti dei problemi che aveva dovuto affrontare da sola erano in realtà problemi istituzionali che colpiscono le donne ovunque e in particolar modo nell’industria discografica. Forse non è affatto casuale che ad oggi intorno alla sua immagine sia riuscita non solo a creare una forte e artisticamente valida funzione musicale, ma che i suoi live siano diventati dei veri e propri incontri generazionali scaturiti anche da una narrazione documentaristica così fortemente identitaria e realistica.
Tale processo è stato ampiamente replicato in molteplici documentari usciti nello stesso arco temporale come Gaga: Five Foot Two, A Kanye Trilogy, Katy Perry: Part of Me, Season di Justin Biebier, Travis Scott: Look Mom I Can Fly, rispettando il mantra che tutto è performance e ogni performance può diventare un mezzo di estensione del proprio marchio anche rispetto alla propria condizione psicologica e sociale.
Conseguentemente all’incremento di tali prodotti, secondo la docente Kristin J. Lieb, autrice del saggio Gender, Branding and the Modern Music Industry, tale effetto è diventato il tramite soprattutto dopo il 2017, con l’affermazione del movimento MeToo, per molteplici artiste di raccontare attraverso un propria visione registica e personale ciò che si nascondeva dietro la conformazione e la vita di una popstar, lo sfruttamento della propria immagine sessualizzata e le difficoltà di fare parte di un’industria non letteralmente dorata come sembrava essere. «Questi artisti hanno sperimentato un rebranding culturale atteso da tempo, diventando stimati guerrieri che cercano di ritenere responsabili i sistemi abusivi e i singoli autori di abusi. Gestire le artiste in questo modo ha avuto un effetto negativo sulla loro espressione creativa, sulla salute mentale e sulla longevità della carriera».
Questa tendenza segnala un progresso sotto un aspetto: il pubblico ora è meno concentrato nell’oggettivizzare i corpi reali delle star, come è stato abituato a fare per decenni, ma crea conseguentemente anche un nuovo pericolo; ora il pubblico si sente autorizzato a conoscere i dettagli di tutto ciò che accade nella loro vita privata. La vita di una popstar non è sinonimo di perfezione e le sue debolezze non possono diventare il merchandising da propinare continuamente ai propri fan. Far sentire un proprio “adepto” parte integrante della propria vita privata li espone a molteplici rischi, tra cui la conformazione di un fandom tossica, raccontata abilmente nell’horror splatter Sciame (Swarm) di Donald Glover e Janine Nabers in cui una congregazione di fan comincia ad uccidere letteralmente chiunque parli male del proprio idolo, così come il riacutizzarsi di quei traumi che cercano di espiare attraverso il racconto televisivo, come spiegato dal terapeuta Bessel van der Kolk nel suo libro Il corpo accusa il colpo: «Può anche comportare grandi spese per l’artista, che non guarisce magicamente semplicemente raccontando la sua storia da una piattaforma abbastanza grande».
Documentari come The World’s a Little Blurry incentrato su Billie Eilish e Demi Lovato: Dancing with the Devil, capostipiti di questa nuova forma di racconto cinematografico, sono abilmente costruiti e hanno sdoganato la diffusione di determinate tematiche per le artiste stesse, ma come sono stati recepiti dai fan? Possono diventare realmente veicoli nel catalizzare tali messaggi o sono unicamente prodotti di intrattenimento a volte lesivi per l’artista stesso?
«Al giorno d’oggi, le pop star sembrano esistere per intrattenere i fan e portare i loro fardelli, e talvolta sembra addirittura che alla fine muoiano per loro, commercialmente o letteralmente. I fan poi passano alla stella successiva, si rimpinzano del loro trauma e poi li guardano spegnersi”. Ci vorrebbe una maggiore modulazione tra la realtà e la finzione in quanto stiamo sempre trattando di prodotti televisivi. Farsi veicolo di un messaggio non dovrebbe mai subordinarsi alla perdita della propria libertà personale. “Quando una star si spoglia emotivamente, strappa via il suo marchio che, se costruito e gestito correttamente, dovrebbe essere lo strato protettivo tra lei e il suo pubblico».
Uno dei maggiori esempi riportati da Lieb, proprio in merito ai molteplici rischi che tali prodotti possono rappresentare, se non veicolati in maniera eccelsa, è l’effetto scaturito dal documentario Framing Britney Spears, prodotto nel 2021 dalla New York Times Company. Se pur sin dal principio il reportage volesse denunciare le molteplici difficoltà incontrate dall’artista sia nella sua vita artistica che privata, sino al provvedimento legale che istituiva suo padre come unico tutore legale, abbia ottenuto conseguentemente l’effetto opposto mettendo in pasto la vita di una persona in notevoli difficoltà emotive alla mercé del pubblico.
Framing Britney Spears non è mai stato autorizzato dall’artista nonostante i termini e la narrazione del documentario fossero decisamente a suo favore e anche dopo la fine della tutela legale da parte del padre nel 2022, il movimento #FreeBritney, nato nel 2021 per liberare la propria paladina dal suo controllo, ha continuato a cercare attraverso i suoi post chiari messaggi di aiuto, tanto da sostenere che Britney Spears non fosse mai stata realmente liberata ma che al momento sia detenuta in una struttura di salute mentale, denotando una totale dipendenza da ciò che le difficoltà emotive e mentali di questa artista scaturivano per questa comunità di adepti.
«Date le richieste di autenticità del pubblico e la proliferazione di documentari in streaming sulle popstar, sembra che la maggior parte degli artisti emergenti in lizza per la vetta delle classifiche ora non abbia altra scelta che rivelarsi comunque. Proprio come in altri momenti storici certe tipologie di stili musicali ed estetici avevano definito un nuovo linguaggio così il mostrarsi emotivamente vulnerabili è diventata una procedura operativa standard nella pop music».
Come visto anche nel nostro paese negli ultimi due anni c’è stato un notevole incremento tra chi ha voluto raccontare la sua storia senza sovrastrutture prendendone per la prima volta possesso, come nel caso di Supervissuto di Vasco Rossi, e a chi ne ha sfruttato l’onda utilizzando lo schema delle produzioni internazionali senza aggiungere elementi sconcertati alla propria vita artistica (Emma, Elodie, Blanco), ma questo ci dice molto non solo di quanto effettivamente realizzare oggi un documentario possa fidelizzare conseguentemente il fan ma di come l’industria discografica e cinematografica siano sempre più interconnesse.
Quindi se da un lato il limite di tali operazioni possono far presupporre al fan di essere parte integrante e attiva della sua vita privata, allo stesso tempo crea un risvolto economico non indifferente. Il dato non affatto casuale che dimostra come tali progetti saranno sempre più parte integrante della proposta seriale e cinematografica, è il grandissimo successo che rispettivamente stanno avendo la riproduzione cinematografica dell’Eras Tour di Taylor Swift (quasi 179 milioni di dollari d’incasso a due mesi dalla sua uscita) e di Renaissance di Beyonce (21 milioni dollari d’incasso solamente al suo esordio il 1° dicembre).
Se pur si tratta in entrambi casi di film-concerto, con una forma narrativa sicuramente differente rispetto alla linea documentaristica, questo dato dimostra come aver precedentemente realizzato dei lungometraggi sulla propria vita personale abbia spinto entrambe le artiste a produrre indipendentemente i propri film eleminando di conseguenza intermediari e canalizzando il potenziale economico/artistico unicamente nelle loro mani: «Superstar come Swift e Beyoncé si sono dimostrate capaci di costruire i propri apparati aziendali per commercializzare direttamente i prodotti alla loro massiccia base di fan. Di conseguenza, la necessità di intermediari convenzionali come etichette discografiche e studi cinematografici viene conseguentemente eliminata».
Nonostante come analizza la giornalista Cynthia Littleton su Variety lo sciopero degli sceneggiatori e degli attori, conclusosi ai primi di dicembre, abbia portato una conseguente crescita della forma documentaristica non solo nel racconto musicale, dimostra come il formato video rappresenti ancora una grande forma di racconto e di conformazione delle popstar tanto da poterne diventare uno dei principali core business. Che le popstar diventeranno ancor di più i registi di loro stessi?