«Questa la sapevi?». Il messaggio su WhatsApp accompagna l’immagine di un vecchio manifesto su cui campeggiano George Harrison e Bob Marley, i quali — recita l’annuncio — avrebbero tenuto un concerto assieme, al Lyceum Ballroom di Londra il 15 luglio 1975. Questa la sapevo, in effetti. Una vecchia bufala che tuttavia non impedisce al poster di riemergere di tanto in tanto sulle pareti di qualche club o tra le bancarelle di memorabilia. Un fondo di verità c’è: la foto è autentica, scattata solo due giorni prima del fantomatico live, nel backstage di Marley al Roxy di Los Angeles.
Ma il loop ormai è partito ed è l’occasione per rivangare il menù delle vecchie leggende metropolitane del rock: riecco la lingua di mucca di Gene Simmons, lo squalo nella vasca di Jimmy Page che si fa largo tra le grandi labbra di una groupie e il Mars di Mick Jagger similmente immerso nella vagina di Marianne Faithfull. Fake di primo taglio, bufale DOP di tono vagamente dionisiaco.
Ma è sufficiente riproporle, mandando anch’esse in loop, per salire al grado successivo, quello della vera e propria fantasia di complotto, che a sua volta si dirama spesso e volentieri in sottovarianti. Non c’è ambito culturale in cui se ne contino così tante come nel rock. E non è un caso.
Le più articolate sono anche quelle più macabre, avide di morti reali o presunte. Dal suicidio di Kurt Cobain messo in scena da Courtney Love per nascondere il suo delitto, ai roadie responsabili dei decessi tutt’altro che accidentali di Brian Jones e Jimi Hendrix; fino all’immancabile CIA, mandante oscura delle morti di Bob Marley e John Lennon.
E se scrivi Lennon, non puoi non aggiungere McCartney, per il complotto dei complotti: Paul is Dead. Una fantasia cospirazionista talmente da manuale da essere al centro di ben due capitoli dell’acutissimo saggio firmato Wu Ming, La Q di Qomplotto, in cui si tracciano tra l’altro le differenze tra un complotto reale e uno immaginario.
Il primo, tendenzialmente: a) ha un fine preciso; b) coinvolge un numero di attori limitato; c) è attuato in modo imperfetto, perché è la realtà stessa a essere imperfetta; d) finisce una volta scoperto, solitamente abbastanza presto; e) è inseparabile dal suo contesto. I complotti oggetto di fantasia, al contrario: a) hanno un fine vastissimo; b) coinvolgono un numero di attori potenzialmente illimitato; c) si svolgono con estrema coerenza, tutto secondo i piani, fino al minimo dettaglio; d) proseguono anche se descritti e denunciati; e) durano indefinitamente.
Smontare le teorie è facile (in teoria, appunto), basta isolarne le caratteristiche. Il difficile è convincere chi ci crede a non crederci più. E così, dopo oltre cinquant’anni, c’è ancora chi è convinto della morte di Paul McCartney e della sua sostituzione con un sosia, fantasia partita anch’essa da un nucleo di verità: l’inconfondibile Mini Cooper del Beatle era stata davvero coinvolta in un incidente, il 7 gennaio 1967. Ma alla guida non c’era lui, bensì tale Mohammed Chtaibi (illeso, buon per lui). Qualcuno aveva riconosciuto l’auto e fatto partire il loop, sempre più ridondante e intricato dopo esser stato riattivato nel 1969 da radio, articoli satirici presi sul serio, copertine e backmasking.
Altro pezzo forte, questo: girare i dischi al contrario per cogliere messaggi nascosti. I quali, se per i Beatles sono indizi della morte di Paul, altrove diventano presto incitazioni al demonio. Una palindromia acustica che — come notano gli stessi Wu Ming — è in realtà una pareidolia uditiva: in pratica, si sente ciò che si desidera sentire, fino a trasformare il rumore in segnale. Il che può anche essere divertente, se non fosse che tra i cluesters (i cercatori di indizi) c’è gente come Charles Manson, incauto esegeta di Helter Skelter e Revolution 9, «l’Apocalisse di John». È forse un caso che l’8 dicembre 1980 l’assassino di Lennon lascerà sul suo comodino una Bibbia aperta sul “Gospel according to John”?
In seguito sarebbe spuntata la fantasia di secondo livello: d’accordo, Paul è vivo, ma gli indizi sono reali, ideati dai Beatles per farsi beffe di chi passa la vita a decifrare e interpretare suoni e testi diventati improvvisamente esoterici. “Looking through a glass onion”… In un senso o nell’altro, molto più che una bufala: piuttosto un macabro alternative reality game ante litteram, in cui gli ascoltatori diventano finalmente protagonisti. Una dimensione parallela fatta di messaggi criptati, esoterismo a buon mercato, morte e döppelganger, che per molti fan è comunque più desiderabile della stessa realtà. Caratteristiche strutturali che anticipano quelle di tanti complotti recenti, a cominciare dal famigerato QAnon.
E parlando di interpretazioni, come leggere questi fenomeni? Forme degradate della conoscenza, come suggeriscono l’Umberto Eco del Pendolo di Foucault e il Karl Popper della teoria sociale della cospirazione? Oppure narrazioni che hanno lo scopo di placare le nostre più celate pulsioni psicologiche, epistemologiche e sociali, come vorrebbero autori quali Peter Knight e Timothy Melley?
Riprendendo quanto scritto da Jacopo Di Miceli, un altro studioso delle teorie cospirazioniste, è lecito pensare che la loro «ribellione epistemica alle tradizionali autorità che producono e trasmettono la conoscenza (scienza, mezzi di informazione, istituzioni politiche)» abbia trovato terreno fertile nell’immaginario del rock, portatore di simili istanze. Non a caso i cluesters si erano formati nei campus universitari americani, luoghi in cui si rigettavano le vecchie forme di convivenza e di agire politico, cercando riscontro in una leva di musicisti che come quei ragazzi stavano diventando adulti (trascinandosi dietro più di un trauma irrisolto).
Ma c’è dell’altro. Gli elementi dionisiaci e pseudo satanici di tante leggende metropolitane non fanno che riflettere il carattere mitologico, anzi diciamo pure religioso o neo pagano, di quel fenomeno di massa che è stato il rock classico. A tutto vantaggio dell’industria dell’entertainment: più le storie che nutrono il suo mercato sono sensazionali, più vendono. Su questo punto Lennon aveva colto nel segno, affermando «The Beatles are more popular than Jesus Christ». La Beatlemania e il precedente culto di Elvis erano stati il sintomo di un bisogno di ritualità collettiva — di natura quasi orgiastica — che il cristianesimo non poteva più soddisfare.
Ma, forte del suo appeal millenario, poteva pur sempre modulare, con quella «apoteosi di morte» di cui parla Andru J. Reeve, che alla teoria del Paul is Dead ha dedicato il saggio Turn Me On, Dead Man (2004): «Quando gli dèi laici diventano simili a Cristo, assumono su di sé i peccati del mondo e, se muoiono, li adoriamo ancora di più. C’è un problema, per quanto riguarda i Beatles: nel paradigma familiare del cristianesimo non c’è posto per quattro Cristi. Uno di loro doveva morire».
Sarà per questo che al monoteistico Elvis è andata meglio. Il Re è ancora vivo, assicurano gli adepti, e ci guarda dalla sua astronave extraterrestre. Ma non era Bowie, l’alieno?