A pochi giorni dalla fine dell’Ortigia Sound quello che rimane è la nostalgia. In realtà si inizia già a sentire sull’isola all’ultimo giorno del festival, la domenica, quando parte del pubblico festivaliero comincia una lenta migrazione al di là dei due ponti che collegano l’isola al centro di Siracusa. E poi nei giorni successivi, pensando a quello strano clima comunitario di facce più o meno conosciute durante la quattro giorni, non fa che aumentare.
Essere sull’isola durante l’Ortigia Sound è un’esperienza particolare. Da un lato c’è l’isola, coi suoi abitanti, dall’altra i turisti – spesso stranieri – venuti qui a scoprire la bellezza del luogo. E poi ci sono loro, quelli del festival, ventenni e trentenni con le Teva, le Crocs, le Salomon, marsupi e tote bag (di università, festival, cause sociali varie). Immancabili, che sia giorno o notte, gli occhiali da sole, spesso velocissimi. Queste tre realtà umane condividendo un luogo in cui si ritrovano spesso a stretto contato si mischiano, si parlano, si conoscono, sempre con un certo rispetto e un’apertura reciproca. In fondo il sole scalda e in ogni luogo c’è musica. Spesso, spessissimo, dj set.
In un contesto così fortunato e prolifico, l’Ortigia Sound cerca la sua dimensione. Da una parte – vista la line-up di artisti conosciuti soprattutto nel mondo clubbing (David August, Verraco, Bitter Babe, Objekt, Upsammy, Donato Dozzy) – l’idea è quella di posizionarsi nella geografia estiva come un festival danzereccio europeo, dall’altra è quella di proporsi come boutique festival in una location magnifica. Un festival che è anche un endurance, con musica a qualsiasi ora del giorno e della notte, un ritmo costante (anzi, vari ritmi, dalla techno alle nuove sonorità latine), così a terra così nelle barche sul mare. Il risultato è una giostra di balli, con i suoi pro e contro (fare un festival in Italia rimane un atto di resistenza cieca), un appuntamento clou dell’estate dei festival italiani.
Ballare senza sosta
Si parte la mattina dal Lido (che prosegue fino a aperitivo), si continua di giorno con i boat party, poi fino alle 2 al main stage e ancora fino alle 7.30 all’after oramai ufficializzato come second stage. L’ultimo giorno, oltretutto, un ulteriore after dell’after in barca, alle 6 del mattino, per vedere l’alba. Lasciato un filo indietro il mondo dei concerti in favore dei dj set, l’Ortigia Sound si è dimostrato la casa ideale per chi doveva sgranchirsi le gambe e scrollarsi via di dosso 12 mesi di lavoro e ufficio. Immaginiamo i contapassi degli smartphone impazzati.
Sempre e comunque resistenza
Utilizziamo il termine resistenza, e non l’abusatissimo resilienza, perché organizzare un festival in Italia oggi è un atto politico, e quindi di resistenza. Culturale e non solo. Se l’anno scorso le principali difficoltà erano state causate dall’incendio (probabilmente doloso) all’aeroporto di Catania, per questa edizione gli ostacoli burocratici e politici hanno colpito la parte organizzativa (il main stage che dal castello Maniace si è dovuto trasferire alle porte dell’isola, i permessi non concessi last minute per il parco archeologico). L’Ortigia Sound però ha tenuto duro, lavorato a piani b e risposto sul campo, valorizzando l’after e le altre attività circostanti (talk, performance, boat party).
L’importanza della comunità isolana
L’Ortigia Sound ha dalla sua qualcosa che, probabilmente, nessun altro festival in Italia può vantare: un ecosistema unico di luoghi, persone e addetti ai lavori presenti nel territorio. La piccola isola di Siracusa è infatti viva e responsiva, aperta a collaborare e ad accogliere il pubblico (straniero e non) che ogni anno atterra per i giorni del festival. Il vostro paradiso è la nostra casa, recita uno slogan locale. E quando queste due visioni – paradiso e casa – trovano incontro, nasce la magia.