A quanti di voi è capitato di assistere a concerti in cui il cantante, francamente, non ce la faceva più? Specie negli ultimi anni, quando gli headliner dei festival giganti e i protagonisti di tutte le date più grosse sono stati dinosauri degni dell’Isola Nublar, reunion di attempati rocker sempre arzilli, pronti a fare faville tra gobbi elettronici, luci e fumi stratosferici, aiutini preregistrati e fiatone dopo i primi salti, si sono viste e ascoltate performance dal vivo a tratti imbarazzanti da parte dei frontmen. Facile giudicare, far partire la shitstorm sui social, ma dopo la visione del documentario sui Bon Jovi Thank You, Goodnight (ve ne parliamo qui) è impossibile non farsi prendere dall’empatia nei confronti di un onesto rocker che ha perduto la voce e che si strugge per ritrovarla.
Che vi piacciano o meno i Bon Jovi, una delle prime band vicine alle sonorità imparentate col metal che sia entrata in casa degli italiani dalla tv, dai video in alta rotazione su MTV o Videomusic, è difficile ignorare il fatto che siano stati la band di punta dell’hard rock americano anni ’80 e ’90, famosi in tutto il globo, che abbiano sfornato di singoli di indubbia fama da Livin’ On a Prayer a It’s My Life passando per gli strappamutande alla Always. Canzoni diventate mitologia moderna grazie alla voce sexy e graffiante del leader Jon Bon Jovi, capace di raggiungere note molto alte rimanendo maschia e di fondersi perfettamente con quella dell’ex compare Richie Sambora. Che succede quando gli altri della band, quelli che suonano gli strumenti, riescono sempre a beccare tutte le note mentre tu che sei il cantante rimani sfiatato? Un bello psicodramma danese a tinte fosche, che fa male guardare, perché ci immedesimiamo nel buon Jon, che a differenza di tanti colleghi è invecchiato fisicamente bene, è in forma, e non si è fatto i lifting né tinto i capelli, sa proprio del cliché di brav’uomo americano lavoratore, che non riesce più a lavorare.
Mentre nel documentario scorrono le immagini della gloriosa storia della band, il contrappunto il presente è dato da un signore sessantenne che ha distrutto le corde vocali e non riesce più a fare un concerto dignitoso. Che sta ore a dannarsi con riscaldamento vocale, laser terapia, fino alla scelta definitiva dell’intervento chirurgico di ricostruzione delle corde vocali per tentare il tutto per tutto (è ancora troppo presto per capire se sia andato a buon fine o meno). Un plauso all’onestà con cui Jon Bon Jovi ha deciso di raccontare al mondo il suo dramma, che è quello condiviso da molti della sua generazione, vicini al suo genere musicale.
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Viene da pensare alla reunion dei Guns N’ Roses in cui la voce di Axl Rose ha perso ormai tutta la grinta rimanendo una pallida e flebile ombra di quella che era la voce più figa del rock. Riesce a prendere le note, ma non ha più il mordente, la cattiveria, quel graffio che lo contraddistingueva quando era giovane (per la cronaca anche lui ha avuto qualche problema vocale nel tour del 2022). Se nel 1989 affermava che una riga di coca gli metteva la voce ko per una settimana, oggi non sembra sia più la droga il problema, ma l’invecchiamento. Il vecchio Ozzy Osbourne è riuscito a fare tour solisti o di reunion coi Black Sabbath solo fino a qualche anno fa, ma ascoltarlo era una sofferenza. Non sembrava riuscire più a cantare, così come Paul Stanley dei Kiss, che all’ennesimo Final Tour è stato spesso accusato di utilizzare tracce pre-registrate perché non più in grado di intonare i pezzi come si deve.
Siamo stati signori e non abbiamo ancora scomodato il convitato di pietra, Mr. Vince Neil dei Mötley Crüe, anch’egli impegnato nell’ennesimo tour di fine carriera, ogni anno più doloroso da ascoltare, con quel tono da gabbiano colpito da un sasso, nonostante lui continua a dire nelle interviste che la sua voce dopo tutti questi anni è probabilmente la migliore di sempre. I fan sparsi in tutto il mondo non la pensano affatto così. Stessa condizione per David Lee Roth che nonostante affermi di non aver mai avuto alcuna delusione dalla propria voce, in realtà è sfiatato come gli armonium citati in Strade dell’Est di Battiato.
Non solo metal: prendiamo un cantante che ha fatto la storia del rock, Bono. Possiamo affermare che la musica degli U2 è stata interessante finché la sua voce è stata capace di viaggiare in libertà dal basso verso l’alto, emozionando stadi interi. Da quando non riesce più a raggiungere le sue note, la caduta è stata inarrestabile.
Uno direbbe: beh, è colpa dell’età. E invece non è un problema che riguarda tutti quelli del settore, perché Alice Cooper, Klaus Meine degli Scorpions, Joey Tempest degli Europe, Bruce Dickinson degli Iron Maiden e molti altri sono sempre in forma e cantano come se avessero trachee indistruttibili e corde vocali di titanio. Poi c’è chi decide, come Michael Sweet degli Stryper, di abbassare le canzoni di mezzo tono o di un tono per venire incontro alle proprie capacità vocali non più prestanti come un tempo, specie sulle note alte, c’è chi come il già citato Jon Bon Jovi decide di parlare apertamente ai fan dei propri problemi con la propria voce e del dramma interiore che ha passato per provare a cantare come un tempo. Oppure chi come Eddie Vedder, dopo aver avuto problemi di voce nel 2018 a Londra, ha affermato: «Il dottore mi stava visitando e gli ho detto che gli avrei dato 10 mila sterline per avere una voce come quella di Adele». Il dottore in questione doveva essere piuttosto simpatico perché gli ha risposto: «Quella è una voce da un milione di dollari, per 59 sterline posso farti somigliare a Liam Gallagher».
Ci sono anche gli artisti che abbracciano il tempo che passa e decidono di cambiare registro come Robert Plant, che invecchiando non insegue più le impennate vocali dei Led Zeppelin, ma adatta le canzoni a uno stile più blues: «Il falsetto a piena voce che ero in grado di fare nel 1968 mi ha contraddistinto finché non mi sono annoiato», ha spiegato al Los Angeles Times. «Poi, quella sorta di performance vocale dalla personalità esagerata si è trasformata ed è andata da un’altra parte». Si capisce, non è un caso che Ian Gillan dei Deep Purple abbia smesso da anni di cantare Child in Time e che abbia paragonato più volte quella canzone al salto con l’asta per gli atleti delle olimpiadi. Il mai troppo compianto Chris Cornell parlando della propria voce invecchiata diceva nel 2015: «Col tempo che passa, ho un minore range vocale e non ho più la possibilità di passare facilmente tra differenti registri come in passato, in compenso sento come se avessi una maggiore abilità di connettermi con tutte le canzoni. È un obiettivo sempre in movimento, la voce umana non è come una tromba o un pianoforte, cambia continuamente e il cantante deve seguire la corrente».
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Ma che succede alla voce di un cantante che invecchia? Matteo Ratti di VEM Coaching, vocal coach specializzato in voce rock, spiega che le corde vocali per il cantante sono come i tendini per l’atleta e che il cantante non dovrebbe straviziare troppo, né fare tour massacranti da 20 date al mese perché dovrebbe aver sempre modo di recuperare la forma fisica della voce. Inoltre le note più alte sono quelle che con l’andare del tempo si perdono prima. I cantanti degli anni ’70 o ’80 – con tutta probabilità – hanno avuto poco accesso ai professionisti della voce per migliorare ed economizzare il modo di cantare, oppure hanno avuto a che fare con cantanti classici che hanno insegnato loro le regole basilari del volume, ma che non si applicano a tutti, soprattutto quando si parla di voci microfonate.
Alcune voci, specie quelle più graffiate, che ci sembrano molto dispendiose in termini di corde vocali, in realtà una volta appresa la tecnica sono molto più economiche e – ascoltate senza microfono – molto meno potenti di ciò che crediamo. Ecco come fanno personaggi come Corey Taylor degli Slipknot o Jonathan Davis dei Korn ad avere voci distorte inossidabili a 50 anni. Quindi, oltre al corpo che decade dopo una certa età, sulla voce influisce tantissimo la tecnica. Se alcune rockstar hanno abusato della propria voce in gioventù, è possibile che molti anni dopo non riescano più a trovare quelle note, che le abbiano perse per sempre. Nei tour colossali spesso e volentieri i cantanti fanno uso di cortisone per combattere infiammazioni, lesioni o polipi delle corde vocali e andare in scena, ma queste soluzioni equivalgono a far correre un calciatore tutte le domeniche con le ginocchia a pezzi: alla lunga sono cose che si pagano.
La soluzione più dignitosa, sia per sé stessi che per il proprio pubblico, probabilmente sta nell’accettazione della propria nuova voce e nell’adattamento della propria musica a ciò che si è in grado di fare, come il già citato Plant che si gode i teatri e l’affetto del suo pubblico cantando musica nuova più in linea con il suo gusto, oppure trovare nuova linfa nella voce della terza età, come ci ha insegnato Johnny Cash registrando i suoi capolavori con Rick Rubin. Di certo meglio che fingersi ventenni quando non lo si è più e rischiare di rovinare anche il ricordo del passato con esibizioni deprimenti che non rispettano il proprio talento né la fedeltà dei fan.