È il 2024 e l’America è pazza dei Milli Vanilli: com’è possibile? Il duo anni ’80 è al centro del revival più bizzarro dell’anno. È merito di Ryan Murphy. La sua serie Monsters – La storia di Lyle ed Erik Menendez racconta la storia vera di due figli di papà di Beverly Hills che hanno assassinato i genitori nell’estate del 1989. Una delle cose che li univa era la musica dei Milli Vanilli che in quel momento spopolava in radio. Dopo Monsters, i numeri degli stream di pezzi come Blame It On the Rain e Girl I’m Gonna Miss You sono decollati di brutto. È troppo strano per essere vero, ma come cantavano loro, “ragazza, sai che è vero”.
È una bella rivincita per i Milli Vanilli, tra le popstar più chiacchierate dell’epoca. Fabrice Morvan e Rob Pilatus erano due ragazzi del giro dei club di Monaco di Baviera, dandy afroeuropei che sfornavano pezzi di bubblegum post hip hop buoni per MTV, ballando come pazzi e vestendosi come Cher. Avevano i capelli più appariscenti e i pantaloni più stretti del pop. Hanno centrato tre hit e vinto un Grammy come migliori artisti emergenti. Cosa poteva andare storto?
Il disastro è arrivato quando il loro produttore ha svelato che a cantare quei pezzi non erano Rob e Fab. Caso unico nella storia, il Grammy che avevano vinto è stato revocato e le loro hit sono state bandite dalle radio, dove non si sono mai più sentite fino a oggi. L’onta del playback li ha mandati entrambi in rovina e Rob Pilatus è addirittura finito nella spirale della droga, morendo nel 1998. L’anno scorso Morvan ne ha parlato come di un peso che si porta dietro da anni.
La sua versione della storia è contenuta nel documentario del 2023 Milli Vanilli diretto da Luke Korem. Ma il boom post Monsters è inaspettato. Secondo Billboard, il catalogo dei Vanilli ha registrato un incremento medio del 114% a livello di streaming dopo il debutto della serie su Netflix. Blame It On the Rain è cresciuta del 68%, Girl You Know It’s True del 32,5% e Girl I’m Gonna Miss You addirittura del 258%.
La prima stagione della serie true crime di Murphy e Ian Brennan Monsters era sul serial killer Jeffrey Dahmer, la seconda racconta la storia dei fratelli Menendez. Erik e Lyle avevano 18 e 21 anni quando hanno ucciso i genitori José e Kitty Menendez con dei fucili da caccia, nella loro villa di Beverly Hills, sostenendo di avere agito per legittima difesa dopo anni di abusi da parte del padre. Cooper Koch e Nicholas Alexander Chavez interpretano i due fratelli, Javier Bardem e Chloë Sevigny i genitori.
In una delle scene più strane si vede Lyle che, al funerale dei genitori, mette il lento dei Milli Vanilli Girl I’m Gonna Miss You, facendo rabbrividire i presenti. Non è un’invenzione di Murphy, è successo davvero. Lo scrittore Robert Rand, autore del libro The Menendez Brothers, ha confermato che «alla cerimonia funebre per Jose e Kitty Menendez del 25 agosto 1989 sono state suonate diverse canzoni dei Milli Vanilli». Per dirla con Murphy, «la scelta di Lyle di mettere un pezzo dei Milli Vanilli al funerale dei genitori è un caso di realtà che supera la fantasia».
In Monsters si vedono i fratelli che dopo aver comprato i fucili cantano su Blame It On the Rain che esce dall’autoradio. Pochi giorni dopo gli omicidi, i due sperperano una fortuna in Rolex, auto e impianti stereo. I Vanilli sono presenti in tutta la colonna sonora, come un coro greco che racconta quella tragedia familiare. L’uso che Murphy fa della musica è brillante. Nella scena finale, i fratelli vengono condannati all’ergastolo senza possibilità di ottenere la libertà vigilata, e da scontare in due carceri diversi. Mentre due van li portano via, Lyle ed Eric si scambiano un ultimo sguardo, sulle note di Girl I’m Gonna Miss You.
Da quel momento, la Vanillimania è esplosa. È persino uscita una nuova versione reggae di Blame It On the Rain del produttore NomaD, già vincitore di un Grammy, con un cameo di Fab Morvan (“NomaD è qui, Fab è qui! Stiamo per fare la storia, fratello!”). Nel video appare anche la grande autrice Diane Warren.
Tutto ciò sarebbe stato impensabile anche solo pochi anni fa, quando i Milli Vanilli venivano demonizzati e considerati simbolo tutto ciò che di sbagliato c’è nel pop. Restano l’unica band che ha dovuto restituire un Grammy. «Sai cos’è successo al premio?», mi ha chiesto Morvan l’anno scorso. «È stato fatto a pezzi e si trova nel museo dei Grammy. L’hanno rotto e messo su uno scaffale. Ho pensato: mio Dio, ma davvero sono arrivati a tanto?».
Ma procediamo con ordine: intanto proprio nessuno, nel 1989, pensava che fossero Rob e Fab a cantare. E a nessuno importava. Del resto, negli anni ’80, nessuno credeva nemmeno che Bruce Willis fosse davvero in grado di scalare i grattacieli. Se si potesse tornare indietro nel tempo fino al 1989 per svelare a un fan medio del pop che i Milli Vanilli cantano in playback, la sua reazione sarebbe: «Ma non mi dire, Sherlock!». Volendo davvero scioccare qualcuno, gli si dovrebbe dire che un giorno Paula Abdul farà parte della giuria di un concorso canoro in tv.
L’industria discografica si è comunque indignata per il caso dei Milli Vanilli e questo perché rappresentavano un’estetica pop nuova e radicale. In Rob e Fab si concentravano vari riferimenti razziali e culturali, per cui il beat hip hop underground di Paid in Full veniva trasformato nel sound europeo e lascivo di Girl You Know It’s True (dal vivo, piazzavano anche le battute iniziali di Bring the Noise dei Public Enemy, aggiungendo al tutto un bel po’ di punti bonus blasfemia). Hanno mescolato disco music, rap e house fino a diventare un’entità superpop cosmopolita, senza radici. E poi Rob e Fab erano due bei ragazzi che giocavano con la loro carica omoerotica. Erano post-razza, post-gender, post-musica: in un decennio in si è esagerato con l’utilizzo del prefisso post, i Milli Vanilli erano i più post di tutti i post.
Fab e Rob, uno nato a Parigi e l’altro tedesco, sono stati sempre degli outsider. Si sono conosciuti a una festa a Monaco, rimanendo sorpresi nel vedersi. «Non c’erano molte persone di colore in città», racconta Fab nel documentario. «Eravamo gli unici due con la pelle scura». Avevano avuto entrambi un’infanzia difficile e hanno immediatamente instaurato un legame strettissimo. «Era come un fratello maggiore», mi ha detto Morvan l’anno scorso. «Mi ha introdotto nella scena. Non parlavo bene il tedesco. È stato il mio mentore, per molti versi».
Insieme hanno dato vita a un gruppo che si chiamava Empire Bizarre e hanno creato il loro look, a partire dalle acconciature. Ma erano molto diversi l’uno dall’altro: Fab era quello equilibrato e silenzioso, Rob il casinista. «Alla gente non piaceva il mio amico», ha detto Morvan. «Rob da giovane ha sofferto molto per il fatto di essere di razza mista: era una cosa strana nell’ambiente in cui è cresciuto. Penso che sia cambiato quando è diventato un famoso ballerino di breakdance: voleva essere temuto, non amato».
Il produttore Frank Farian, leggenda dell’Eurodisco già responsabile del successo dei Boney M, li ha ingaggiati per dare un volto al suo nuovo progetto pop Milli Vanilli. Loro hanno preso i soldi e hanno iniziato a godersela di brutto, soprattutto Pilatus. «Proprio per via dei suoi trascorsi (l’infanzia in orfanotrofio e quello che aveva passato lì dentro) era più incline alla dipendenza. La gente ci chiamava il Buono e il Cattivo, perché lui aveva, diciamo così, una pessima fama a Monaco. Era un bad boy. Ma eravamo in sintonia. Era la musica a unirci».
Hanno raccolto fama e fortuna in America, dove sono stati alla guida di una nuova ondata di pop sexy e danzereccio promossa dalla trasmissione Club MTV, con artisti come Paula Abdul, Soul II Soul e Fine Young Cannibals. I loro video erano da urlo e le loro interviste divertenti, come quando Pilatus ha spiegato l’origine del nome del gruppo nel suo inglese stentato: «In turco ha un significato molto positivo; e abbiamo scelto Vanilli perché ci piaceva il nome Scritti Politti e volevamo qualcosa del genere». John Leland, grande critico pop dell’epoca, li ha paragonati ai Sex Pistols: «I Milli Vanilli sono il futuro, il vostro futuro».
Non si sono mai fatti amici ai piani alti. Pilatus si è lasciato andare agli eccessi della droga e a un ego da diva. «Musicalmente siamo più talentuosi di un Bob Dylan qualsiasi», ha detto una volta al Time. La sera in cui hanno vinto il Grammy, un fan si è avvicinato per congratularsi e Pilatus gli ha detto: «Più tardi». E se n’è andato. Quel fan era Paul McCartney.
Più sparava sbruffonate, più diventava palese che la voce americana suadente che i fan sentivano in radio non era la sua. «Tutti mi chiedono se sono io a cantare nel disco», ha detto Pilatus a Rolling Stone. «Persino mia madre me lo chiede. Sono un tipo piuttosto orgoglioso ed è imbarazzante… finirà che, a forza di sentire ripetere questa roba, mi verrà un cancro allo stomaco e morirò».
In Rob e Fab c’era qualcosa che li rendeva diversi: l’accento, l’androginia, il senso della moda, l’ostentazione del fatto di essere stranieri. Tutto ciò ne faceva dei facili bersagli, soprattutto per un’industria statunitense dominata da baby boomer che disprezzavano i pop kids. E così sono stati vittime da una terribile ondata di razzismo, nazionalismo e omofobia (non erano gay, ma molti americani pensavano che stessero insieme). Nel programma tv In Living Color li hanno presi in giro in uno sketch per via degli occhi verdi di Rob. Quando Farian ha svelato la faccenda del playback, la notizia è stata trattata come un evento di cronaca di rilevanza mondiale. Per qualcuno è stata una festa. «È stato come vedere dei bambini che giocano alla pentolaccia», ha detto Morvan. «Tutti tirano delle gran bastonate e poi aspettano. Quando cadranno le caramelle?».
In seguito, Farian ha pubblicato un album dei veri cantanti, The Real Milli Vanilli, intitolato The Moment of Truth, mentre Rob e Fab hanno inciso un disco tutto loro: il numero complessivo di copie vendute probabilmente non arriva neppure a tre cifre. L’unico altro momento di gloria dei due dopo i Milli Vanilli è stato lo spot televisivo per un chewing gum, diffuso in frettissima appena dopo la revoca del Grammy, un gioiellino di comicità in cui Rob e Fab mimano un’aria operistica in playback.
Cadendo nel baratro, i Milli Vanilli si sono trascinati dietro la scena da Top 40 degli anni ’80. Si sono trasformati in un monito vivente contro il pop. Ci è voluto un decennio perché TRL, con Britney, i Backstreet Boys e gli NSYNC, riportasse in auge il suono dirty pop di cui i Milli Vanilli sono stati pionieri. Le radio avevano eliminato le loro hit dalla programmazione e questo, in parte, è il motivo per cui la colonna sonora di Monsters sta avendo un impatto così forte: la gente ascolta questi brani per la prima volta. E li apprezza.
La storia dei Milli Vanilli ricorda da vicino il modo in cui Monsters descrive Erik e Lyle: due fratelli prigionieri di una menzogna terribile, che non possono fidarsi di nessuno se non l’uno dell’altro, vulnerabili nonostante la facciata patinata. Sia i fratelli omicidi che i Milli Vanilli escogitano un piano per ingannare tutti, ma falliscono. Nonostante tutto il male che hanno fatto, è commovente la scena in cui i Menendez si lanciano un ultimo sguardo sulle note di Girl I’m Gonna Miss You, così come lo è vedere Fab, alla fine del documentario, che stupisce il pubblico di un festival suonando Blame It On the Rain in versione voce e chitarra, dal vivo.
In questo momento storico, in cui siamo tutti preoccupati all’idea del pop deepfake creato dall’intelligenza artificiale, nei Milli Vanilli c’è qualcosa di rassicurante e familiare. Rob e Fab avevano una vera personalità, sapete? Erano star, avevano senso dell’umorismo, fisicità, carisma. Si vedeva che erano partiti come amici e si intuiva anche che avevano un disperato bisogno d’attenzione, per come si mettevano in mostra in modo esagerato. I loro difetti, come tutto il resto, erano umani. Ecco perché finalmente i Milli Vanilli hanno acquistato un senso.