È forte la tentazione di descrivere Damo Suzuki, cantante dei leggendari krautrocker Can, come una sorta di sciamano musicale. E a dirla tutta, i video che girano spingono a farlo. Ce n’è uno di Peter Przygodda che mostra la band tedesca alla Sporthalle di Colonia nel 1972. A un certo punto sul palco arriva un tizio per eseguire un numero di giocoleria con tre ombrelli (ognuno di un colore diverso). Il riflettore illumina il giocoliere, ma la presenza più magnetica resta Suzuki. Vestito completamente di rosso, impugna il microfono con entrambe le mani, ondeggia e canta mentre i lunghi capelli neri gli coprono il volto. Sembra quasi non sia coscienti di quel che succede attorno a lui, è un momento che condivide con la band e con la musica ipnotica e suonata con immensa sincronicità.
Suzuki, morto lo scorso 9 febbraio all’età di 74 anni, ha vissuto cercando questo tipo magia. Mitizzarlo significherebbe sminuire l’esistenza rigorosa che ha condotto per crearla. Nato nel 1950 nella piccola città costiera giapponese di Ōiso, ha passato l’adolescenza interessato meno agli studi e più alle arti. A scuola ha fondato due club, uno per gli amanti della musica in generale e uno dedicato ai Kinks. Già da adolescente sapeva di essere diverso dai coetanei e desiderava lasciare il Giappone. «Se vuoi trovare la verità», ha scritto nel suo libro del 2019 I Am Damo Suzuki, «devi rompere con la tradizione».
E così a 18 anni è partito per la Svezia, viaggiando poi per l’Europa. Si manteneva facendo il busker e, pur non considerandosi un bravo chitarrista, ha capito che in buona sostanza si stava dedicando all’improvvisazione. Una volta ha definito il suo stile «sound da Età della pietra». Questo suo modo primitivo di fare musica si è rivelato fondamentale quando, come noto, il bassista Holger Czukay gli ha chiesto di unirsi ai Can dopo averlo visto fare busking a Monaco. Era il 1970 e il gruppo aveva bisogno di un nuovo cantante data la defezione di Malcolm Mooney, un americano di colore che era stato il loro primo vocalist. I Can avevano fatto dei provini, ma i candidati erano troppo professionali. Suzuki, invece, poteva essere «integrato nel gruppo» in modo tale che «nessuno volesse comandare», come ha spiegato una volta il batterista Jaki Leibezeit. E difatti non ha mai assunto il ruolo di un frontman tradizionale, ma è diventato un altro strumento fondamentale nella loro ricerca collettiva di armonie cosmiche.
Lo dimostrano le creazioni più lunghe ed esaltanti dei Can. In Halleluwah, uno dei pezzi forti di Tago Mago del 1971, Suzuki gorgheggia, farfuglia e canta muovendo quei 19 minuti. Ogni musicista ha il suo spazio e la facoltà di sperimentare liberamente. Mentre la sezione ritmica continua per la sua strada, negli istanti conclusivi del brano arriva un momento di purezza in cui Suzuki canta: anche tu puoi provare questa estasi. Ovvero, come rendere raggiungibile la trascendenza con la sola forza di volontà.
Il tastierista dei Can, Irmin Schmidt, ricorda oggi com’era esibirsi con Suzuki: «Aveva qualcosa di unico, che non avevo mai visto prima, un potere spontaneo». Le cose non sono cambiate nemmeno dopo che Suzuki ha mollato la band, nel 1973. Per buona parte della vita si è esibito con “portatori di suono”, ovvero musicisti locali che per lo più non aveva mai incontrato prima. Il chitarrista Glenn Jones, che ha fatto tre tour con Suzuki dal 2002 al 2004, riferisce via e-mail le regole che il cantante chiedeva di rispettare per i concerti: «Niente cover, niente prove, niente improvvisazioni». All’inizio Jones non capiva, poi ha compreso che Suzuki voleva che la band «creasse canzoni strutturate, ma sul momento, brani che esistevano una volta sola e poi sparivano». In un’intervista del 2018 alla Red Bull Music Academy, Suzuki ha definito questa pratica «composizione istantanea».
In un paio di giorni ho contattato 25 musicisti che hanno condiviso il palco con Suzuki. Parlando delle esibizioni, la risposta più comune è stata che i concerti sprigionavano un’energia immensa. Il chitarrista Vincent Cauwels l’ha detto in modo sintetico: «Suzuki portava i musicisti a un livello superiore». Mitsuru Tabata dei giapponesi Acid Mothers Temple & The Cosmic Inferno ha spiegato di essersi sentito «libero di suonare qualsiasi cosa» al fianco di Suzuki e che quando, un anno, il leggendario cantante si è unito al suo gruppo sul palco, hanno finito per suonare come i Can.
Nonostante la politica di Suzuki di non fare prove, spesso faceva qualcos’altro coi suoi “portatori di suono” prima di uno spettacolo: condivideva un pasto. Molti degli artisti che ho contattato hanno sottolineato la sua generosità e la sua cucina squisita. Uno di loro ha parlato della sua «ottima frittura al salto», un altro ha elogiato una sua «deliziosa cena a base di roast beef» con un sacco di avanzi poi distribuiti dentro dei Tupperware. Il polistrumentista Joshua Abrams mi ha raccontato che, prima di uno show, Suzuki ha cucinato per un gruppo di 12 persone. «Non è facilissimo se sei in viaggio e ti trovi in una cucina che non conosci. Ricordo di essere rimasto impressionato dal fatto che nulla veniva sprecato. Persino i liquidi di cottura del pesce e delle verdure venivano conservati e poi utilizzati per preparare il riso». Poco prima che Suzuki lasciasse il Giappone, da adolescente, sua madre gli aveva fatto fare una promessa: «Ovunque tu vada, devi mangiare bene».
Suzuki era un vero artista perché la filosofia della sua arte coincideva con quella della sua vita. Ovunque andasse e con chiunque si trovasse, coglieva tutte le opportunità per trarre il massimo. La composizione istantanea non ha quindi a che fare solo con l’arte. Nei 20 minuti di Bel Air, il pezzo che chiude il capolavoro Future Days dei Can del 1973, canta in modo così fluido e disinvolto che sembra spontaneo e naturale. La creatività non era un interruttore che accendeva o spegneva, era una condizione esistenziale.
Da Rolling Stone US.