La musica alternativa: che fine ha fatto? Senza dubbio resiste, sicuramente nei locali. Ma in questo periodo funesto in cui le porte dei club sono chiuse la troviamo tra le pieghe di Bandcamp e soprattutto negli account di YouTube in una vasta gamma di progetti spalmati tra passato e presente. Certo che la situazione non è più quella degli anni ’90, quando la musica alternativa era a tutti gli effetti il nuovo pop: piaccia o no, quella rivoluzione ha fatto emergere in superficie una musica che poi è stata inglobata e fagocitata dall’industria discografica, fino a farne cenere.
Oggi è complicato districarsi tra l’offerta e valutare l’effettiva qualità delle proposte è a volte impossibile. Perché in un certo senso si è standardizzato tutto, anche quel settore, di pari passo con le nuove tendenze indie e trap, che di alternativo hanno poco o nulla: il rock pare definitivamente sepolto (almeno così ci dice un veterano, Gene Simmons dei Kiss). La televisione, che una volta con la videomusica veicolava mode sonore e modelli di comportamento, si è trasformata e la sua funzione si è spostata nei social, nella rete, dove regna un approccio libero, ma allo stesso tempo dannatamente simile a quello di un telecomando.
Ma sarà poi vero? C’è stata davvero un’età dell’oro dell’alternative o è solo un mito? Riavvolgiamo il nastro indietro nel tempo e torniamo nei primi anni ’90: gli anni di Alternative Nation, la trasmissione underground di MTV che ha cullato un’intera generazione fino al 1997, anno che segna probabilmente un punto di non ritorno.
Tutto iniziò nel 1991 quando improvvisamente i Nirvana da band di culto si ritrova ai primi posti in classifica con Nevermind: tutto quello che era considerato musicalmente contro il sistema della musica di consumo diventa improvvisamente la preda preferita per i discografici, ansiosi di trovare dei nuovi Cobain da spennare. Ed ecco infatti apparire i primi cloni, uno per tutti i Silverchair che erano davvero imbarazzanti per somiglianza con la band di Seattle. Ma non sono solo gli imitatori a sfangarla: addirittura, in una convergenza che sarà ben storicizzata dal documentario 1991: The Year Punk Broke, anche gente come i Sonic Youth o i Melvins troveranno un contratto con una major, cosa impensabile e da un certo punto di vista inquietante. Il mondo si capovolge e si perde il confine tra quello che è vendibile e quello che non lo è. Nello stesso tempo, a parte il rock che viene senza dubbio rinvigorito, si sviluppa la nuova scena elettronica, in testa a tutti l’IDM, che trainata dalla house, dalla techno e dalla progressive (e da altre emanazioni della dance più popolari e cafone) viene in superficie decretando in Aphex Twin uno dei loro re, così come gli ibridi stile Happy Mondays, parti di una generazione “acida”.
Alternative Nation era dunque un programma che, nato ufficialmente nel 1992, si poneva come cartina di tornasole della situazione underground a 360° e vetrina nella quale vedere sbocciare i futuri best seller. Più che alternativo, era il dopolavoro notturno del mainstream. E quindi lo spirito era in qualche modo simile a quello che negli anni ’70 portava i talent scout a stipulare contratti a illustri sconosciuti purché facessero qualcosa di strano, senza sapere poi la reale entità di quello che si ascoltava e sperando in una botta di culo.
Alternative Nation ha proiettato nel suo spazio gli act indipendenti più popolari del periodo: basti pensare ai Weezer, alla Rollins Band, agli Orb, ai Pavement e anche a quelli più “sputtanati”, ma che ancora avevano qualcosa da dire come gli Oasis, i Blur e i Red Hot Chili Peppers. Ma ha anche dato posto a video di band che a rivederle oggi non hanno alcun senso, e a parte le copie delle copie tipo gli orrendi Creed, troviamo personaggi completamente privi di idee dediti a una musica alternativa che in realtà era una ciofeca. Possiamo citarne alcuni: chi si ricorda dei Jars of Clay (addirittura gruppo christian rock?) o dei Semisonic? Non hanno assolutamente attecchito nell’immaginario pur avendo anche raggiunto un certo breve successo, il che ci fa pensare ancor di più che non ci fosse un reale filtro di qualità, quanto forse la mera necessità di coprire un palinsesto. Altri invece, comunque senza arte né parte, come per esempio i Bush o i No Doubt, invece trovarono un seguito di culto e una popolarità continuativa a causa dello stile chiaramente paraculo e modaiolo.
Lo stesso nu metal ha partorito parecchie sozzerie che passavano tranquillamente su quegli schermi, molte delle quali hanno ottenuto un immeritato boom di pubblico. Probabilmente perché, proprio come nella rotazione di video normali in cui nulla è spiegato, si dava in pasto allo spettatore prodotti che solo per il fatto di essere visibili erano, come dire, roba di cui fidarsi. E questo era uno specchietto per le allodole anche per la Generazione X, che forse credeva di avere cambiato qualcosa e invece si è ritrovata subito Generazione MTV.
Vero è però che vedere in Italia Alternative Nation tramite il canale europeo di MTV era il momento preferito per chi, nel pieno dei suoi vent’anni, tornava a casa tardi dopo una serata, magari dopo essersi fatti diversi cannoni o calato qualcosa o dopo le prove in qualche saletta ammuffita. Per cui sbragati sul divano davanti alla tv era piacevole a prescindere vedere cosa succedeva di nuovo, magari sflashando per i video che spesso, chiaramente seguendo un ben preciso tòpos, erano allucinogeni, un misto tra un light show anni ’70 e fumetto brut. Ma a volte bastavano anche solo i bumper, davvero surreali nella loro “organicità astratta” di primitivo 3D e citazionismo visivo (tra l’altro il segmento di apertura programma era preso da un video dei Nine Inch Nails, per inciso Pinion).
All’interno del programma poi vi erano degli special, sia dedicati alla band in voga, sia interviste sul campo agli spettatori dei festival più importanti del giro alternativo (ad esempio quello di Reading) o monografie su un particolare genere (ad esempio il punk), cosa che ne faceva anche un mezzo per acculturare un minimo chi – neanche maggiorenne e che magari non era mai uscito dal paesello – non aveva mai sentito parlare di determinate scene. Uno dei vj simbolo era Toby Amies, che nel look e nel comportamento era il perfetto ragazzo indie del periodo, tutto precisino, della porta accanto, ma che sotto sotto sembrava un partyman stile Disco 2000. E c’era la vj Kennedy, personaggio stravagante che teneva banco con un fascino femminile figlio del post punk in cui il modello non era la perfezione estetica, ma il carattere. Non di raro queste figure diventavano importanti e di culto quasi quanto i cantanti che intervistavano o i video che presentavano.
E allora, a parte l’aspetto discutibile di cui abbiamo parlato, c’era anche e soprattutto la possibilità di informarsi e vedere veri e propri assi. Parliamo ad esempio degli Atari Teenage Riot o dei Melt Banana, che la critica certo non osannava, anzi spesso stroncava senza mezzi termini o come minimo rimaneva spiazzata perché non seguivano gli standard del periodo. Il tempo darà a queste band piena ragione, nel frattempo però vederle passare sullo schermo ti permetteva di andare il giorno dopo a cercare i loro dischi dal tuo rivenditore di fiducia o di affittarli (perché sì, all’epoca i CD si potevano affittare e farne gustose copie private).
I programma madre di Alternative Nation era 120 Minutes, un format notturno che negli Stati Uniti, sin dal 1986, mandava in onda video di musica poco ortodossa, in tarda serata: su quegli schermi sono passati personaggi come i Pixies, i R.E.M., gli Smashing Pumpkins e tutti quelli che bene o male hanno fatto la storia della musica rock dopo essere stati sepolti per anni nei sotterranei. Ma appunto, nel ’91 tutto viene rovesciato e anche 120 Minutes si ritrova a flirtare con cose tipo il brit pop, alleggerendosi: ecco che Alternative Nation spunta fuori come una sua costola, tra il mainstream e il duro e puro, non a caso confinata nel weekend nottambulo.
In un decennio scarso questa bulimia alternativa tanto ha costruito quanto ha distrutto, sviluppando forse ancora più luoghi comuni del settore di largo consumo. Perché tutto quello che era in qualche modo (e in apparenza) in contrasto con le posizioni di alta classifica si è poi spostato sull’indie versione anni 2000, nel quale le asperità sono oramai smussate. Ed ecco quindi che nel 2003 nasce un altro programma che sostituisce Alternative Nation: Subterranean. Che però di sotterraneo ha ben poco (grandi protagonisti i Blink-182 o gli Interpol e i Franz Ferdinand, per dire) e chiude nel 2011, resistendo più di Alternative Nation, ma sparendo presto dai cuori della gente.
Perché una cosa è certa: ciò che è alternativo non è accondiscendente e nasce per rimanere in eterno nell’inconscio collettivo, non solo nella durata dei palinsesti. È per questo che attendiamo un ritorno di quella Nazione Alternativa che forse in questo 2021 di cruciali cambiamenti economico-sociali è pronta per scuotere gli schermi. Sì, proprio come un bumper del 1991.