David Garrett è una rockstar, suo malgrado. I discografici lo circondano, lo proteggono, lo traducono, lo interpretano. Ma quando ti rivolgi direttamente a lui le barriere crollano, perché David Garrett è un tipetto sveglio, che capisce tutto al volo, seppure in un inglese non perfetto (il mio) e con qualche linea di febbre (sua).
Ci incontriamo nello studio di Splendida cornice, il programma di Geppi Cucciari dove è ospite per promuovere, con largo anticipo, il tour internazionale Millennium Symphony, in partenza il prossimo 25 aprile, a Roma. Garrett prova, e sviolina The Loneliest, reinterpretando il singolo dei Måneskin con piglio da virtuoso, poi esaudisce le nostre richieste. «Quindi devo fare una serenata a un’anziana signora molto in gamba? Un’ingegnera spaziale?», mi chiede, mentre col suo Jean-Baptiste Vuillaume accenna il tema di Star Wars. «E poi vuoi che faccia anche Il volo del calabrone di Rimskij-Korsakov? Per Geppi?». Sorride, facendo vibrare in fast forward il ronzio del celebre bumblebee (Garrett è nei Guinness dei primati per averlo suonato in 1’26”).
È un po’ Peter Pan, con i jeans strappati da 25 anni e lo sguardo incastrato tra la spalla e il suono, e piuttosto crossover, con la coda di cavallo e le mèche bionde che ciondolano sul riccio del violino. «Non so esattamente cosa significhi essere un violinista crossover, mi considero un violinista. Per me un violinista può fare grande musica suonando pop, jazz e musica classica. Io scelgo estratti di musica che abbiano sostanza e valore, ed è ciò che mi piace suonare. Non mi chiedo che genere sia».
Millennium Symphony, un titolo “modesto” per un progetto a cavallo tra due secoli, rappresenta per Garrett un’evoluzione, perché anche nella musica si deve sopravvivere, inventare, evolvere, per continuare ad esistere. Quattordici dischi di platino, 32 d’oro, oltre cinque miliardi di stream e più di 1600 concerti in 25 anni di carriera, che Garrett riassume così: «Millennium Symphony è un’evoluzione delle mie capacità di scrittura. Non mi limito a suonare il violino, ma arrangio e compongo, è davvero un’evoluzione del modo in cui scrivo musica, del modo in cui metto insieme la band e l’orchestra, ma anche un’evoluzione del suono. In passato ho lavorato su album crossover, ho lavorato molto su materiale degli anni ’50, ’60, ’70, ’80 e alcuni anche più recenti, ma in questo disco ho scelto la musica a partire dagli anni 2000, così ho dovuto sistemare un po’ il suono di quanto ho prodotto e scritto agli ultimi 20-25 anni. È stato divertente e interessante sotto diversi aspetti: differenti ritmi e diversi software musicali per cercare di aver un sound più moderno, ma sempre sinfonico».
Abituato a esibirsi per un grande pubblico, spesso in stadi immensi dove suona da solista, si sottrae all’adorazione delle groupie, che arrivano a lanciare mutande e reggiseni sul palco quando la sua versione di Viva la vida esplode dal suo “cannone” (come è chiamato il violino di Paganini). «No, non faccio caso se volano mutande o reggiseni, I play to the audience but I play to the music. E alla fine forse potrebbe essere il miglior modo di stare sul palco, è molto più sexy il momento privato dell’artista con la musica dell’attenzione continua al pubblico, e ai reggiseni». Chissà se anche Niccolò Paganini aveva fan impazzite sotto il palco, come i Beatles… «Penso che Paganini sia stato il primo dei Beatles…. Io non mi considero sexy, ma se ci metti passione, se sei dentro al momento, quello lo trovo sexy. Ci sono molte cose sexy: visi, abiti, cose. Se ti annulli in un momento, anche quello è sexy».
Da chi è composto il suo pubblico? È trasversale? «Non li conosco uno ad uno (sorride), ma considero il pubblico la vera star, perché il pubblico definisce una star. Puoi anche essere brillante, ma come artista hai sempre bisogno di un riscontro su dove va la tua musica, chi la ascolta. Devi anche vivere nel mondo reale. Hai bisogno, attraverso il pubblico, di conoscere la tua musica. Non andrai mai avanti se non suoni di fronte a un pubblico e non mostri quello che sai fare. Questo è il miglior periodo di sempre, in questo senso: tu suoni qualcosa, lo metti sui social e se è buono, verrà visto. È abbastanza facile, un tempo era molto più difficile farsi conoscere, mostrarsi, soprattutto se si era giovani. Per esempio prima, nell’altro millennio, se avessi dovuto fare quattro date in Giappone, sarei dovuto partire almeno due settimane prima per fare promozione in tv, in radio, con la stampa, ecc. Adesso con i social risparmi molto tempo, è più facile, ma di lavoro ce n’è sempre tanto».
Tanto lavoro, molti viaggi, promozione forsennata e un destino che, da quando aveva 5 anni, lo mette sotto ai riflettori. «Rubavo il violino a mio fratello, cercavo l’approvazione di mio padre. Non era un violino prezioso, perché ero un bambino, mio fratello di anni ne aveva 10, non eravamo in grado di capire il valore dello strumento». Con gli anni, i violini crescono con lui, sempre più preziosi, per un enfant sempre più prodige. «Fammi premettere che non suoni meglio se hai un violino più prestigioso. Se suoni uno Stradivari, lo devi saper suonare bene per ottenere il miglior suono, lo stesso vale per un violino più economico. Il valore del violino non ti fa suonare meglio. Poi, certo, ci sono delle differenze di prezzo tra i violini. Uno Stradivari o un Guarneri sono molto, molto cari e ci sono alcuni vantaggi per quanto riguarda la potenza e la proiezione del suono. Sono differenze che si notano bene quando suoni il violino in una sala con un’orchestra, ma che noti più difficilmente un una stanza come questa. Se qualcuno suona male, suona male anche con uno Stradivari».
Mentre suona The Loneliest, con gli occhi chiusi e l’archetto su cui si muove un anello rapace («Rappresenta un falco, mi piace averlo nella mano destra, quella dell’archetto, è un gesto scaramantico, per illudermi che il suono sia migliore»), sembra davvero essere solo con le sue note, perso in un’altra dimensione. Quanto gli piace essere una rockstar? «No guarda, non avevo nessuna ambizione di stare sul palcoscenico. Ancora adesso non sono una persona da palco. Anzi, non mi piace proprio il palco. Lo so, sembra assurdo, mi esibisco negli stadi, posti enormi pieni di gente, ma per me non è un momento facile. Ci metto un po’ di minuti ad ambientarmi, per isolarmi dal contesto e concentrarmi sulla musica, in genere mi focalizzo più su ciò che mi circonda, che su chi ho di fronte, e cerco di fare musica. Per me è molto più importante, ho dovuto imparare a stare sul palco per ignorare il pubblico a sentire la musica. Prima ero nervoso, non per la gente, ma per l’aspettativa che ho nei confronti di me stesso. Mi concentro su orchestra, pianoforte, strumenti. Dopo un po’ mi rilasso e mi annullo, potrei essere ovunque, entro in sintonia con la musica. Sono i momenti in cui suono meglio».