Bono istruisce le coriste a creare sul finale di Invisible nientemeno che «un’aura» e intanto David Letterman va in giro per Dublino a fare shopping portando con sé un’enorme forma di formaggio. È una delle prime scene di A Sort of Homecoming, il documentario di Morgan Neville (dal 17 marzo su Disney+) che accompagna l’album degli U2 Songs of Surrender. Ci voleva insomma la figura dissacrante e ironica di «his Daveness» per stemperare il tono pensoso di Bono e fornirci una riproduzione degli U2 non più fuori scala, ma a misura d’uomo.
A differenza del disco, Bono e The Edge non si prendono nemmeno l’incomodo di camuffare A Sort of Homecoming da progetto degli U2. Larry Mullen Jr e Adam Clayton sono uno fuori gioco per problemi di salute e l’altro impegnato nella realizzazione d’un film, forse quello su Francis Bacon. Vengono ringraziati a fine documentario per aver lasciato cantante e chitarrista liberi d’invitare musicisti e amici, tra cui Glen Hansard e Grian Chatten dei Fontaines D.C., a suonare con loro versioni scarnificate dei pezzi degli U2. Lo fanno all’Ambassador Theatre di Dublino di fronte a poche centinaia di persone (invidia) e nel pub storico McDaids (doppia invidia). Il tutto presentato da Letterman, qui nel ruolo d’autorevole cazzone e primo testimone dell’operazione con cui la coppia spoglia le canzoni degli U2 per vedere l’effetto che fa.
Il bello di A Sort of Homecoming è che non è il solito unplugged e nemmeno un documentario tradizionale basato su materiale d’archivio e testimonianze. È invece una piccola indagine sulla natura degli U2 vista attraverso gli occhi candidi e decisamente americani di Letterman. Che sbarca da turista a Dublino ignorando o fingendo d’ignorare cosa siano stati i Troubles e chiede perciò a Bono da che parte deve stare tra cattolici e protestanti. Per spiegargli come stanno le cose, il cantante gli fa un disegnino sul tablet.
Il retoricometro s’impenna quando Bono dice gli U2 fanno musica estatica, però poi il cantante aggiunge una cosa che mi pare riassuma l’esperienza del gruppo. Più o meno: incidere e pubblicare roba spudorata come quella degli U2 significa buttarti dalla finestra e convincerti che riuscirai a volare. Che poi è un altro modo per dire che certe canzoni le devi cantare con tutta la sincerità che ti puoi permettere, fregandotene del senso di vergogna, che è quello che fa Bono nello speciale dove alterna considerazioni serissime a battute ironiche, queste ultime con Letterman come spalla.
A Sort of Homecoming è anche un documentario sull’arci-irlandesità del gruppo. Invitato da Bono a non cedere alla tentazione di produrre una cartolina per turisti, Neville ritrae gli U2 come riflesso se non addirittura personificazione della modernizzazione del paese, del passaggio dall’Irlanda in bianco e nero a quella a colori, dalla nazione puritana a quella che s’esprime con un referendum popolare a favore dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, e quindi la transizione dagli U2 ultracattolici e rigidi degli esordi a quelli ammiccanti di Achtung Baby e oltre.
La cosa migliore di A Sort of Homecoming è che ti riconcilia con gli U2 e riesce là dove Songs of Surrender fallisce: ti fa riscoprire le radici della loro musica. Esagero: Letterman salva gli U2 portandoli al pub (in realtà sono loro che invitano lui, che neanche beve alcol, ma non sottilizziamo). In questo senso, più degli stralci del concerto all’Ambassador sono rilevanti le interviste, le scene girate per strada, alla
y, da McDaids dove Bono, The Edge e altri cantano Invisible. Era una canzone minore degli U2. Grazie al mantra “there is no them, there’s only us” (ecco l’aura) diventa il pezzo-chiave dello speciale.A un certo punto Letterman va a Forty Foot, la baia fuori Dublino dove chi ne ha il coraggio va tradizionalmente a fare il bagno tutto l’anno. È dicembre, fa un freddo cane e lui si bagna giusto i piedi, ma per i due irlandesi diventa il Forty Foot Man. Gli dedicano una canzone mezza improvvisata, un omaggio affettuoso e canzonatorio che gli fanno sentire durante una delle interviste. A sorpresa, la si risente nei titoli di coda in una versione incisa in studio col produttore Jacknife Lee. Dopo aver saputo che Forty Foot Man era diventata una canzone vera (bruttina, ma vera), Letterman torna in Irlanda per girare l’ultima scena dove finalmente s’immerge nelle acque della baia, ovviamente lamentandosi del freddo.
C’è un aneddoto che gira da tempo in cui gli U2 dicono a Bob Dylan che le sue canzoni resteranno per l’eternità e Dylan risponde «anche le vostre, solo che nessuno saprà come suonarle». In un certo senso, A Sort of Homecoming è una smentita lunga un’ora e mezza delle parole di Dylan. Ci si fa l’idea che la musica degli U2, nata nella Dublino di fine anni ’70 in una specie di vuoto culturale, senza radici né futuro, sia a suo modo folk, non solo per lo stile delle nuove versioni acustiche. Sono folk l’intenzione, la natura di certe canzoni, l’ambizione di fare musica della gente, per la gente di una certa comunità. Songs of Surrender lo suggerisce, A Sort of Homecoming lo dice più chiaramente portando tra le altre cose Bono e The Edge a cantare All I Want Is You al pub in mezzo a un sacco di gente coi violini, le chitarre acustiche, le pinte, il calore umano. È bello e paradossale che questo racconto della musica come esperienza comunitaria e voce di un’assemblea venga da un gruppo famoso per le esibizioni fuori scala e spersonalizzanti nei palasport e negli stadi.
E c’è una cosa bellissima che dice Glen Hansard dopo aver recitato Carrying the Songs della poetessa Moya Cannnon, una cosa che forse riassume quel che è stato il rock per tanti decenni e per tante persone. Parafrasando Frank Harte, dice che i vincenti scrivono la storia, mentre i perdenti scrivono canzoni. Forse A Sort of Homecoming è questo: il ritratto di perdenti che hanno scritto la storia e che ancora stanno lì, a fare i conti con le proprie contraddizioni e a cercare testardamente di scrivere canzoni.